Monte Hellman: cinema a doppia corsia
Monte
Hellman: cinema a doppia corsia
Rivisto
in televisione, L’uomo
di Laramie di
Anthony Mann suscita domande circa la traccia lasciata da
ineccepibili artigiani del genere, la cui rilevanza è fuori
discussione ma, ai giorni nostri, non più ricordati quanto certi
eponimi maestri; ciò, forse, anche a causa di topoi
come
il registro sentimentale, i quali – benché richiesti dall’assunto
– ne ammorbidiscono le opere apparentandole a più modesti
prodotti. Nel caso di Monte Hellman, scomparso il 20 aprile, la
critica deve far i conti con un aspetto insolito, inedito alla sua
apparizione: lo scardinamento dell’unità narrativa
spazio-temporale, assorbita in un unicum che
è cerchio dall’inizio alla fine. Non occorre altro. Ciò cui
s’assiste è un congegnato frame narrativo
che non necessita di artificiosi stratagemmi o roboanti orpelli da
decadente confezione studio
system.
Un’icasticità che nell’industria di serie B, perlopiù snobbata
e altresì garanzia di cinema fatto con intelligenza e
passione (scarno budget,
rapidità d’esecuzione, totale sfruttamento del materiale di
lavorazione), trova un comodo posto, cui s’acclude un ulteriore
elemento di sorpresa: il paradigma teatrale, che insinua gli
ipertestuali Camus e Sartre, soprattutto il Beckett di Aspettando
Godot,
all’interno d’un contesto scenico costantemente pervaso dalla
morte – presenza (extra)diegetica aleggiante e inevitabile – in
cui le figure al centro, anime agonizzanti che nulla possono contro
il Fato pur cercando di resistergli, procedono come criceti in una
ruota. Senza senso, identità o nome, consapevoli d’un destino che
incarnano senza (domandarsi) un perché.
In
tale anonimia il campionario umano e paesaggistico, non insensibile
alla componente figurativa dell’iperrealismo, si esprime in una
sorta di spettacolo esistenzialista, per alcuni versi
preludendo il milieu della
New Hollywood che dagli hippy in chopper alla
vana ricerca dell’America, sino ai dropout in
impossibile fuga da tutto (e in
primis da
sé stessi), funge da vivaio per un collettivo ritratto
generazionale: si prenda Cinque
pezzi facili,
la cui sceneggiatura è firmata da Adrien Joyce (al secolo Carol
Eastman), già autrice del copione de La
sparatoria,
e il cui protagonista – outsider senza
meta per scelta, condannato a peregrinare come in un limbo – è il
Jack Nicholson destinato di lì a poco a farsi volto iconico del
Nuovo Cinema Americano. Il Jack Nicholson che, insieme al
trentasettenne Hellman, fonda l’indipendente Proteus, con la quale
il cineasta newyorchese gira il noto dittico western composto dal già
citato La
sparatoria e
da Le
colline blu,
del quale Jack scrive il soggetto, negli stessi luoghi
e nello stesso momento, la mattina uno e il pomeriggio l’altro, con
un costo minimo e identiche maestranze. In maniera esemplare, dopo
un lungo apprendistato da fotografo, montatore e autore
radiofonico, Hellman ostenta la lezione del mentore Roger Corman
(che gli consente di esordire alla regia con l’horror Beast
from Haunted Cave,
e perfino co-dirigere alcune scene de La
vergine di cera),
al quale non poco si deve la rinascita della cinematografia a stelle
e strisce, e che non s’arena alla tecnica registico-produttiva ma
abbraccia quella rivisitazione dei generi da cui sarà impossibile
uscire.
Se il crepuscolo della Grande Frontiera trova il
proprio vate stanco e disilluso nell’anarchico Peckinpah (e proprio
lui impersona il novelist Wilbur
Olsen del tardivo Amore,
piombo e furore),
è d’uopo rammentare che in Hellman il genere, rifuggendo una
facile effettistica, conduce a una meditazione
filosofico-esistenziale svelata da un impiego di tempi lentissimi,
una linearità nello stile, un’acuta osservazione della dilatazione
spaziale tipica del western (e qualche vaga eco s’individua nel
recente I
fratelli Sisters di
Jacques Audiard). In ambo i casi si tratta di restituzione
pessimistica, tuttavia la visione esistenzialista che il regista
immette, senza curarsi troppo della ristrutturazione del cinema,
avvia a un crepuscolarismo antispettacolare e antieroico,
ribadito pure da scelte fisionomiche: a parte Nicholson, il
Warren Oates feticcio di Peckinpah, che Hellman considera un
ideale alter
ego tanto
da utilizzarlo in quattro occasioni preferendolo a Sterling
Hayden (in Cockfighter è
un taciturno allevatore di polli da combattimento), e alla cui
memoria dedica l’avventuroso thriller Iguana.
E un inedito Oates affianca i musicisti James Taylor e Dennis
Wilson in quell’anti-Easy
Rider ch’è
lo sfortunato Strada
a doppia corsia,
il cui maggior pregio, a dispetto del film di Hopper, è una distanza
da costumi e spiriti dell’epoca eletta a denudante spaccato, i cui
caratteri, poco più che figuranti, si rivelano creature solitarie
cui non importa molto della sfida lanciata al volante dei rispettivi
bolidi (il loro unico documento d’identità): mitomania e ciarliera
spavalderia bruciano rapide sulla pista, e ogni attante offre di sé
una versione discrepante della propria esistenza; tutti però,
girovagando lungo il sudovest americano, paiono consci del personale
fallimento e ci convivono senza (voler) apporvi rimedio. Non
sorprende come il miglior lavoro di Hellman, nonché uno tra i road
movies più
rappresentativi del decennio, acquisti la patina di cult:
come nei citati western – implicite letture dell’omicidio Kennedy
e dei conseguenti, paranoici effetti – i personaggi sono in
movimento laddove l’azione si riduce a un quadro desolato,
apparentemente statico, che sembra non mutare. Non meno inerte è il
tempo, l’imminente resta tale, l’accadimento non accade mai, né
i protagonisti fanno qualcosa affinché l’evento si compia.
Ripetitivi i micro-eventi, eppure tutto scorre in uno spoglio vortice
senza strilli, lento e inarrestabile, riverbero
d’un climax socioculturale
a un passo dalla crisi.
Come le rockstar denudate
dell’abituale contesto in uno strano gioco metatestuale, che non
solo non cantano ma che quasi non parlano, Hellman si trasla in
personaggio “prigioniero” della propria politique,
che in un cinema e in un’epoca in moto frenetico si smarrisce,
senza sapere né volere leggere la staticità del suo periodo. E al
pari di Corman, il suo posto è ampiamente occupato se non
surclassato da autori nuovi, debitori di un’erudizione
imprescindibile nella confezione indie,
in barba a majors e System,
che la produzione postmoderna ampiamente dimostrerà: a tagliar la
testa al toro è il ruolo del Nostro come produttore esecutivo per
l’esordio registico del giovane Tarantino (quel Le
iene che
in un primo momento Hellman vorrebbe dirigere, nei cui disseminati
indizi si può individuare la filigrana, dai gangster senza nome
all’azione concentrata in un magazzino), che, da grande ammiratore,
sovente lo menzionerà, come testimonia il motore truccato di
Stuntman Mike. E se Amore,
piombo e furore,
girato in Spagna e in Italia, benché nel solco dello
spaghetti-western è un’anomala incursione in un tempo frattanto
rinnovatosi, l’antifona rimane quella d’un cineasta poco
prolifico verso un mondo che non può cambiare, dove (soprav)vivere
fa parte d’un cerchio – il mondo, appunto – da prendersi
com’è.
Quasi fosse un ulteriore capriccio del destino,
Hellman scompare il giorno prima che l’amico Nicholson raggiunga
gli 84 calendari, e c’è chi, per ricordarne il culto, si sperpera
tra messaggi di commiato e disperate ricerche cinefile: citata anche
da Roberto Silvestri, una squisita curiosità concerne una sequenza
introduttiva di Per
un pugno di dollari,
girata da Hellman per un’edizione irta di tagli, totalmente
estranea all’originale, e visibile solo alla tv americana. Road
to Nowhere è
l’ultimo lungometraggio del settantottenne autore, realizzato in
parte in Italia e mai distribuito, che ne segna il ritorno al cinema
dopo ventun anni d’assenza: uno strano esperimento, ammaliante
e démodé,
sul cinema e sull’usuale rimescolio realtà-finzione. Una “strada
verso il nulla”, appunto, come un freeze conclusivo
in cui la pellicola si liquefà sullo schermo, in completo mutismo:
oltre il cerchio non c’è altro. Nel cinema come nella vita.
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