Peter Del Monte: lettera controvento
Peter
Del Monte: lettera controvento
Caro
Peter Del Monte, chi scrive confessa di non essere mai stato troppo
ferrato sulla tua opera, e dunque di non esser mai stato un tuo
grande ammiratore: il che, per un cultore della Settima Arte,
costituisce certo un punto debole. Ciò, per inciso, non per snobismo
o preferenze che la vincano sulle differenze, ma solo perché la tua
filmografia – che conta poco più d’una quindicina di titoli in
quasi mezzo secolo, considerando pure i lavori per il piccolo schermo
– ha sempre dovuto far i conti con circuiti di preferenza
commerciali in cui il labile margine per firme minimaliste, più
sensibili di altre ai piccoli problemi (meglio, ai piccoli
fuochi)
della quotidianità, sarebbe andato via via scemando. Come una
traccia di vita amorosa, irta di brevi ritagli esistenziali, ridotta
a sperduta oasi nel mare magno di produzioni che non sa più che
farsene di apologhi a basso costo, concepiti nel segno d’una
semplicità la cui filigrana si rivela tutt’altro che elementare,
oggetto di dissertazioni riverberanti un personalissimo sguardo sul
mondo. Lo stesso tuo primo lavoro a uscire nelle sale italiane era in
realtà il tuo secondo film, laddove l’esordio, dall’esplicativo
titolo Fuori
campo
e col quale ti saresti diplomato presso il Centro Sperimentale di
Cinematografia, recava il segno d’un mutamento di tempi e gusti; la
stessa egida di quel Rossellini che nei primi anni Settanta avrebbe
accantonato il grande schermo, approntando nuovi linguaggi per la
narrazione televisiva, mostrò come il coraggio del cambiamento si
conciliasse con una rivoluzionaria boccata d’aria, attraversando un
ampio solco che non s’arenava giocoforza al registro politico.
Erano gli anni di autori giovani e freschi, ognuno con la rispettiva
politique,
chi più chi meno destinati a lasciare l’impronta anche nei decenni
successivi: il periodo dei fratelli Bertolucci, di Faenza e Giordana,
di Piscicelli e Amelio, e del primo Moretti. Se purtroppo, causa i
citati motivi, il tuo nome non ha lasciato gran spazio nella
produzione dell’ultimo ventennio, questo non costituisce
necessariamente una colpa, né un demerito: il carattere riservato ma
disponibile, umile e garbato, testimoniato da chi ti conosceva, era
deittico marcatore d’una cifra stilistica disinteressata alla
volontà di apparire; sicché la tua filmografia si spiega col
desiderio d’illustrare il proprio discorso senza forzature o
condizionamenti altrui. Prima che una sorta d’originale
vagabondaggio, in cui nessuno pettina bene come il vento, un invito
al viaggio,
meglio se in compagnia: questo il piccolo, spirituale monito di volta
in volta riproposto in varie forme, dove un pellegrinaggio a Milano
condotto da un ragazzo padre appena tredicenne si trasla nell’onirica
allucinazione di un bambino di sei anni, benché il violento Edipo
che ne scaturisce non impedisca fantasticherie tipiche
dell’immaginazione infantile. Nel maggiore dei casi l’infanzia
riveste un ruolo determinante, nella misura in cui gli assunti da te
firmati suonano quali favole metropolitane debitrici del neorealismo
alla Zavattini, ove il Sessantotto, iniziato e concluso in un celere
istante, è testimone di consegna nelle mani di figurine alle prese
con temporalità più grandi di loro, ben lontani da sogni, speranze,
illusioni di chi ingenuamente li ha messi al mondo. Tanto la fantasia
è univoco strumento per controbattere gli egoismi adulti, quanto
l’itinerario – insegna la letteratura classica – è una lunga
ricerca del tempo perduto in cui radunare i cocci dell’esistenza,
annoverante delicati sdoppiamenti tra immaginazione e realtà – ciò
che potrebbe essere e di fatto è – e non sempre destinata a
siglarsi in modo idilliaco. Le sorprese del Fato son sempre dietro
l’angolo e nelle
tue mani,
forse, qui risiede il gusto d’una sorpresa, positiva o negativa,
tra risvolti insospettati e impreviste affinità che sfociano in
inattesi recuperi. Probabilmente è questa, la magica chiave del tuo
cinema: un’immaginifica terapia, che alterna Freud e pedagogia,
volta all’introspezione nella stentata (ancorché non vana)
possibilità d’una cura; come fa l’altra
donna
della tua non prolifica opera: una signora sposata, infelice e
tradita dal coniuge, in cui uno dei pochi sostegni, una colf di
colore, inaspettatamente scompare spingendo la protagonista, sola e
sperduta, al suo ritrovamento. Oltre il fantastico, la scelta di
raccontare il sentimento della vita in pieghe riposte e sottili
conciliava con la scommessa d’una sperimentazione ereditata dai
maestri, che non abbracciava solo generi e ipertesti (talora
strizzando l’occhio al gotico macabro circa ambientazioni e
scenografie): lo riprovano le riprese di Giulia
e Giulia,
prima fiction realizzata con un sistema analogico ante
litteram ad
alta definizione. Al pari di altri talentuosi film
maker fuori
dagli sche(r)mi di quel periodo, ormai misconosciuti, tu pure
saresti tornato oggetto di culto e rivalutazione grazie alle ospitate
di festival e kermesse
(come
la partecipazione a Napoli, nel luglio di tredici anni fa) e alle
monografiche retrospettive che t’avrebbero dedicato; non è mai
abbastanza, eppure giurerei di carpire la tua lezione in altri
cineasti, da Gianni Zanasi a Ivano De Matteo, dall’orma altrettanto
originale e anch’essi ai margini del grande circuito. L’improvvisa
scomparsa, lo stesso 31 maggio in cui il vegliardo Clint Eastwood
aggiungeva una candelina ai propri novanta calendari, non è avvenuta
in punta di piedi come forse il tuo animo gentile pensava, salutata
da tornate di commossi commiati tra carta stampata, social
network
e blog;
segno che il cinema nostrano, sospeso tra poesia e surreale,
probabilmente ancora necessita di qualche scossa controvento
di romantica indecifrabilità: la medesima, libera e selvaggia di cui
l’odierna cultura – e il Paese tutto – sentono il bisogno senza
necessariamente esplicitarlo.
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