Prima della prima: COMEDIANS
Prima
della prima: Comedians
“Far
ridere o non far ridere? Questo è il patema”, s’interrogava
Woody Allen in una celebre scena di film. Rispetto alla prima
trasposizione dalla pièce
di Trevor Griffiths, quel Kamikazen
– Ultima notte a Milano
realizzato trentaquattro anni prima, il settantunenne Gabriele
Salvatores sembra voler pareggiare i conti col tempo, il pubblico e
il destino, in verità più rancido che luminoso, di entrambi i
fattori: riprendendo un collaudato paradigma, già inscenato a teatro
insieme a una combriccola di volti emergenti destinati a fare strada
(e protagonisti del citato adattamento), il cineasta napoletano,
milanese d’adozione, non smentisce la propria cifra anche per il
diciannovesimo lungometraggio a soggetto, cogliendo un’ulteriore
occasione di sperimentazione. L’ultima d’un variegato campionario
diviso tra alti e bassi, le cui accoglienze, non sempre unanimemente
positive, ripagano il coraggio d’una pur personalissima ambizione.
Sarebbe indelicato etichettare come “referenziale”, “ripetitivo”
o, nella peggiore delle ipotesi, “sorpassato” un
regista-sceneggiatore del suo livello, sì da spingere, in vista d’un
presumibile retaggio, a una retrospettiva rivalutazione anche di più
apprezzate prove; e potremmo dissertare a lungo se tale voglia di
osare – conciliante con arbitrarie disamine socioculturali, a uso e
consumo soggettivi – incontri il favore di spettatori ancora ben
disposti. Addirittura si potrebbe leggere Comedians
come
potenziale allegoria d’un momento buio e difficile, concentrato tra
le anguste pareti d’un interno scolastico scarsamente illuminato, i
cui aspiranti cabarettisti si giocano il tutto per tutto, in attesa
del grande riscatto, pur di uscire da una frustrante apatia: in piena
sera, nella filigrana d’una pioggia scrosciante e incessante a far
da contrappunto, coi clochard
per le vie che si scaldano a un fuoco e i cani che rimestano
tra i rifiuti, è possibile scorgere (anche) la tragica condizione
collettiva del recente biennio che ha indotto a mutare l’esistenza
d’ognuno e – cosa più rilevante – ha visto scemare la
possibilità di (sor)ridere come esorcismo delle difficoltà. Sicché
la nuova fatica di Salvatores, girata a basso budget
in un mese, si propone quale metaforica lezione di vita in cui la
concezione di humour, nell’assortito coacervo di chiavi e
significati, si rivela l’elemento più indispensabile per
fronteggiare l’incertezza del domani. Si vive una volta sola,
appunto. Ma a differenza delle goliardate un po’ patetiche di
Verdone e accoliti, sospese tra facilonerie e grana grossa, il
coetaneo premio Oscar dipana l’assunto senza temere il rischio
d’una teatralità che tra primi piani, campi, controcampi, sovrasta
il cipiglio cinematografico a scapito delle unità narrative; e
ricorrendo, come la prima volta, a buffonesche fisionomie e a
didascalie tese ad elencarne le professioni e conferire al racconto
un’impronta temporale (il countdown
prima dello show), non fa della neo-variante una commedia ma un’opera
in tre atti, con aula sfondo per i primi due e palco in mezzo, per
tanti aspetti debitore di Reginald Rose o David Mamet. Soprattutto
nel primo caso, la vicenda si snoda attraverso le singole psicologie
dei personaggi coinvolti nella master class
finale dall’insegnante Natalino Balasso, che li catechizza e
analizza con freddure e scioglilingua, disparati giochi metatestuali
e stereotipi – o meglio, fenotipi
– della più obsoleta commedia dell’arte: come se la scuola di
comicità s’impippasse del superamento dei gusti, quasi fosse una
torre di Babele démodé,
illudendo i potenziali talenti che un simile campionario stantio
trovi ancora audience, proponendosi quale estremo avamposto in
preparazione d’un esame (la vita stessa). Ne scaturisce un
kammerspiel
probabilmente fedele – più della versione a sketch intrecciati
dell’87 – all’impianto scenico in origine, i cui ruoli al
centro e le rispettive caratterizzazioni costantemente si affrontano
e confondono, sino a traslare l’anteprima in un reale psicodramma
che sconta la pesantezza di un’atmosfera livida e cupa. “La vita
è solo un’ombra che cammina, un povero attorello sussiegoso che si
dimena sopra un palcoscenico per il tempo assegnato alla sua parte, e
poi di lui nessuno udrà più nulla”: la citazione shakespeariana
sulla lavagna è la chiosa d’un Fato (il pubblico
invisibile,
verrebbe da chiamarlo: forse un presagio di morte) dove i chiamati
alla ribalta si riducono a un paio di eletti. Nondimeno, il senso
d(e)i Comedians
risiede
in un’idea di comédie
dai disparati registri, dove l’arte assurge a filosofia, sunto di
un’esistenza ridotta a un nonnulla per trovare un illusorio
miraggio di gloria; viceversa, la vittoria (amara) è niente rispetto
alle spasmodiche attese delle ultime luci mentre piove un mondo
freddo. Lo
showbiz –
stando alle parole di Salvatores – non pare granché mutato:
aspiranti clown si ostinano a gareggiare in televisione esponendosi
al pubblico ludibrio nella speranza d’un ingaggio; eppure il
binario è lontano anni luce dalla “Milano da bere” del decennio
Ottanta, in cui il piccolo schermo (personificato, allora, da una
giovane Mara Venier) fungeva da traino, mentre la bufera sopperisce
all’afa estiva: i losers
rimangono inalterati, pronti a rinfacciarsi, fuori scena e dentro,
ostilità e veleni in un animato sfogo che si traduce in gioco al
massacro con punte di tangibile cattiveria (il numero dei fratelli
Ale e Franz, la colluttazione tra l’ambizioso Marco Bonadei e lo
strafottente Giulio Pranno). Sempre e comunque ad aggiudicarsi la
posta è la puttana del mazzo, non importa che la concezione
d’ilarità detenga un incorrotto quid
d’immacolata purezza (“Due risate è meglio di una”, dichiara qualcuno, “non è necessario che voi amiate la gente, ma è
necessario che la gente ami voi”): colpi e contraccolpi rientrano
nel match, incluse le frecciate che a turno si lanciano l’insegnante
e il talent
scout romano
chiamato a scritturare (un Christian De Sica finalmente sobrio), ma
pure le antitetiche visioni del mestiere di guitto (“Una battuta
non deve solo alleggerire la tensione: la comicità è una medicina,
non una caramella dolciastra che fa marcire i denti”). Meglio re
per una notte o buffone per sempre? Introdotto e siglato dal roco
timbro di Tom Waits, sulle esplicative note di Rain
Dogs
e Downtown
Train,
Comedians
riserva la risposta a metà film, nella passerella dei sei personaggi
in cerca di pigmalione sotto accecanti riflettori (intervallata solo
dall’espressione d’un De Sica sempre più scettico), commentata
dalla chitarra di Peppe Cairone ne Il
volo del calabrone,
lasciando inalterato da stacchi di montaggio l’ermetico, sinistro
soliloquio d’un Pranno memore del Joker
Joaquin Phoenix. Né mancano un paio di figurine di fianco con
relativi risvolti simbolici: il candido extracomunitario capitato per
caso nell’istituto, cui spetta l’unica battuta ilare (“Se vedi
tutto grigio, sposta elefante”), e una bidella sparuta e
inquietante, modellata su Patti Smith, cui in due occasioni tocca
dover cancellare rime allegramente oscene. Un cerchio avviluppato su
sé stesso, destinato a perdurare all’infinito. Un’interrotta
centrifuga della vita. Come la comicità.
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