Complesso di colpa: IL COLLEZIONISTA DI CARTE
Complesso
di colpa: Il
collezionista di carte
Tra
le più autobiografiche opere di Dostoevskij, Il
giocatore ha
per protagonista un demonizzato dal vizio che, impassibile, subisce
vincite e perdite accettando la sorte benevola o avversa, con
identica imperturbabile indifferenza. Anche il carcere, come la
morte, assurge a sollievo morale perché la vita è un rischio in
prima istanza: quale che sia la scelta, ecco giungere il Fato a
reclamare il dovuto. Materia, questa, che il recente cinema
statunitense – da Eastwood a Zemeckis – sembra tenere in
ragionevole considerazione, pensando a eventi storici ancora tiepidi,
dove un pamphlet
su valori collettivi in crisi restringe il campo a psicologie
individuali; di conseguenza le colpe da scontare, fardelli di
responsabilità troppo gravosi, implicano ineluttabilmente una
redenzione singola a raggio più ampio. Lo riporta anche l’ottimo
Stefano Santoli nel volume Fabbrica
di sogni, deposito di incubi:
la dissertazione su un’America indotta a far i conti con (anti)eroi
o ciò che ne resta restituisce un calcolo aritmetico sin troppo
nitido. Stando a ciò, lo spettatore non trasecola di fronte a tropi
e ossessioni, inerenti il peccato e la redenzione, cui il
settantacinquenne Paul Schrader abitua la propria filmografia
aggiornandola in era postmoderna: tutto ne
Il collezionista di carte,
suo ventunesimo lungometraggio, serba una fantasmatica parvenza ch’è
nemico invisibile, al contempo rovescio e prosieguo della geniale
riflessione sulla trascendenza cinematografica (e non a caso il
prodotto è un noir,
da sempre genere prediletto), acquisendo un fondamento anche
maggiore. Le sale cinematografiche in disuso di The
Canyons si
fanno annullamento umano in figure ascetiche, da Evan Lake al
reverendo Ernst Toller, che coronano l’opera del
regista-sceneggiatore in modo testamentario; e, per quanto
indispensabili, feticci quali la narrazione off
in chiave di diario, la scritta tatuata sulla schiena del
protagonista (“Affido la mia anima alla Provvidenza, affido la mia
anima alla Grazia”) o l’inclusione di fisionomie familiari
(Willem Dafoe) contano meno della loro applicazione in senso
spettrale. Il cineasta di Grand Rapids sa perfettamente come gli
errori (e orrori) dei personaggi derivino da una scelta all’origine:
sicché il gioco contempla codici e canoni elevati a filosofia
esistenziale, ove l’annullamento di creature ridotte a salme
ambulanti impone rilanci minimi (e minime perdite), contentandosi di
poco, lontani da luci appariscenti o caotiche bagarre.
“Non mi piace giocare sotto i riflettori, il gioco d’azzardo mi
piace anonimo”, dichiara il counter
William Tell, denominandosi come il leggendario eroe svizzero, al
figlio d’un torturatore suo ex commilitone nell’esercito.
Paradossalmente è il deleterio paradigma dell’azzardo a consentire
alle pedine di restare in ballo: se la sete di rivalsa che accomuna i
due protagonisti, in una sorta di rapporto paterno-filiale, richiama
quelli de Il
colore dei soldi,
non c’è da meravigliarsi non (sol)tanto perché Scorsese – qui
produttore esecutivo – è storico collaboratore per Schrader, ma
anche perché i sinuosi movimenti della m.d.p. lungo le lisergiche
sale o sul tavolo verde fanno de Il
collezionista di carte
un Casinò
più teorico, sottile e introspettivo. Si accennava, infatti, a
Dostoevskij nella psicologia caratteriale e nella rispettiva
differenza di veduta: “Tu vivi così?”, la medesima battuta
declamata dal mentore William e dal discepolo Cirk, indica una
specularità esistenziale e due verità che impongono un’univoca
via di fuga – il rigore, ovvero l’ordine – e spiega l’anonima
icasticità del primo nella copertura degli oggetti che ne arredano
la stanza. Ma l’allegorico delitto, il cui ricordo si traspone in
forma di caleidoscopico girone infernale, attanaglia l’anima
obbligando a un castigo ch’è definitivo regolamento di conti:
l’assassinio del comune padre putativo Dafoe da parte di quello
spirituale, entrambe facce di una medaglia, è una violenza spogliata
d’ogni cruento quid,
che Schrader sceglie di non mostrare, lasciato trapelare da ellittici
strilli e gemiti fuoricampo. Il costo rimane quello della solitudine,
negli interni e negli esterni, che l’iperrealismo hopperiano
sublima nella fotografia di Alexander Dynan, le sinistre melodie (di
Robert Levon Been e Giancarlo Vulcano) contrappuntano e il monito
moralista (Tell che sollecita Cirk a riallacciare con la madre)
richiama quale ineludibile presenza. Una volta tanto
l’autoreferenzialità non è fuori luogo, nella continuazione di un
tragitto onanistico in superficie: se l’amore ne esce vincitore
(l’usuale contatto tra mani diviso dal vetro d’una prigione, che
aggiorna American
Gigolo
e Lo
spacciatore),
quello del cinema nella propria trascendenza – esito catartico in
un’immanenza che sopperisce alla realtà – trionfa sulla vita.
Potenza dell’estetica, nella sua estasi. E nel suo tormento.
Francesco Saverio Marzaduri
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