Un’altra Cosa: TRE PIANI

Un’altra Cosa: Tre piani

Proviamo ad essere “diversamente morettiani”, seguendo il consiglio di qualche collega: il che, a una settimana dal cicaleccio mediatico relativo all’adattamento di Frank Herbert a firma Denis Villeneuve, non impedirà di frenare quello, altrettanto inevitabile, sul tredicesimo lungometraggio a soggetto del cineasta di Brunico. A proposito del quale, chi scrive spenderà poche righe sulla concezione di “semplicità”: quando vent’anni fa lo avvicinai per chiedergli un autografo su una monografia a lui dedicata, il Nanni nazionale, allora presidente della Mostra del Cinema di Venezia, mi chiese, tra il perplesso e il finto svampito, se avessi compreso la lettura critica scelta dall’autore che lui, invece, confessava di non aver proprio capito. In mezzo secolo di carriera, il concetto di “chiarezza” è uno degli irrinunciabili pattern che Moretti si porta appresso, disegnandone una maschera tra nevrosi e contraddizioni, nonché la tormentata relazione col mondo e la propria generazione: tanto da trasformare la celebre battuta manzoniana “Come parli, frate?”, titolante uno dei primissimi lavori, in un aforisma-tormentone tra i più scolpiti dell’ultimo trentennio (“Le parole sono importanti!”). Suonino scontati o grossolanamente banali, i confronti tra l’odierna produzione del regista-sceneggiatore e quella per cui tuttora, pro o contro, se ne continua a discutere, costituiscono un’ulteriore interpretazione non tanto dell’opera in sé, quanto di un pensiero su cui il tempo e le sue regole impongono un bilancio per stratificati gradi. Probabilmente sbaglia chi ritiene che il Nanni rabbiosamente nostalgico, in difesa delle merendine al cioccolato o delle scarpe che celano una diversa opinione sull’esistenza, non abiti più qui: per quanto l’origine di Tre piani per la prima volta giunga da un romanzo (riadattato da Moretti a sei mani con le fide Federica Pontremoli e Valia Santella), ciò non influisce su un itinerario di dolore che si allarga qui a macchia d’olio, inaugurato con La stanza del figlio e proseguito con Mia madre, sino a comporre un’ideale trilogia. Né sembra errato constatare come le rispettive reazioni a Cannes, da festose, si siano fatte più tiepide: parimenti, il dibattito sulla riuscita o meno di quest’ultima fatica costituisce un tamtam che se, da un lato, agevolerà i botteghini, dall’altro non azzera l’impressione d’un climax depressivo, restituzione di un Paese imprigionato in sé stesso, dove certi impegni e valori morali sono svaniti (delle lotte politiche non v’è più ombra), il cedimento alla corruzione funge da valvola si sfogo e sin troppo labile è il passo che separa la presunta felicità dall’abisso della follia. A rifletterci, Tre piani è una specie di personale Caos calmo (altra confezione di matrice letteraria, della quale Nanni era interprete e produttore), come suggerirebbe il padre Riccardo Scamarcio nello scrutare la figlioletta, l’aria assente in aula, dall’esterno della scuola; il fatto che il suo personaggio sia l’involuzione, ancor più in negativo, dello psicanalista della citata Stanza – la cui ossessione personale rende analogamente cieco di fronte alla realtà – ribadisce come l’apatico tempo, lugubre e tetro, sia l’univoco bandolo d’una matassa funerea difficile da districare (e se ciò non fosse sufficiente, ecco la monolitica meccanicità d’un cast freddo e atono a reiterarlo nella prima metà). “Che razza di dita sono queste che non gliene frega più niente di niente?”, declamava il Moretti di vent’anni prima, “si sono forse scordate i vecchi tempi, che cosa voleva dire esser vive allora?” Sicché la struttura narrativa di Tre piani, più che a Eshkol Nevo, pare guardare a Carver, ché il titolo non allude solo a quelli d’una palazzina che si crede più grande del mondo esterno, in cui abitano famiglie borghesi coi rispettivi quadretti disgiunti, e nemmeno agli stadi freudiani – pur presenti – che li identificano: a scandire i ritagli di vita quotidiana sono tre anelli di congiunzione, posti nelle parti costitutive del film, che tramutano un incidente d’auto nelle esequie di un anziano vicino di casa, nell’epilogo sciogliendosi in una milonga, ogni volta riunendo i personaggi o quel che resta di essi; costoro, a loro volta, sono conseguenza di tre assunti scanditi da salti temporali (in due lustri) e da fondu con diciture in basso, a sinistra e a destra. Abbinando ripetuti primi piani e lente panoramiche in una messinscena semplice e dimessa (difficile pensare a una Roma altrettanto anonima), il mosaico è perfetto nel proprio slegato disordine psicologico, quanto la crescita di figli obbligati a scontare errori genitoriali: perché Tre piani è il disincantato interrogativo d’un quasi settantenne – incapace di gridare cose giuste, dietro la toga integerrima – verso lo sguardo di eredi accumulati quanto demotivati, prossimi all’infelicità o incerti di fronte a gesti che ne rivelino maturi barlumi. Firma di aneddoti cinematografici sulla responsabilità paterno-filiale, il volto grintoso d’un tempo non può che farsi da parte (e scomparire dallo schermo), consegnando un’estrema lezione nell’atto di cancellare un ricordo prezioso – le voci familiari, anch’esse tre, incise su una segreteria – prima che l’inamovibile fisionomia, intristita eppure sorridente di fronte all’obiettivo, si trasli in nostalgico lascito restituito all’eternità. È triste morire senza figli, e tuttavia, tra lo scarto e la norma, s’insinua uno spiraglio di luce, esitante o sospeso in superficie: il domani che la madre di Margherita Buy attendeva ansiosa nell’opera precedente, e dalla stessa raccolta mentre, parlando al fantasma del marito, rilascia messaggi alla citata segreteria e, complice il Caso, tenta di riallacciare con un figlio sofferente della distanza genitoriale, prima ostile e poi bendisposto. Nel proprio alzare l’asticella (e Moretti sembra più permissivo perfino verso le nudità femminili), il prodotto corre il rischio d’incespicare in lungaggini e allegorie – sin troppo esplicativo il corvo che per due volte Alba Rohrwacher si vede piombare in casa – ma è anche vero che i deus ex machina della vicenda sono presto accantonati, via via ridotti a pretesto per diventare motore narrativo da cui far dipendere il mutamento, in positivo, d’un collettivo stravolgimento. E l’innesto conclusivo della danza per strada (vezzo felliniano tra i numerosi ereditati da Nanni, da La messa è finita a Caro diario), si rifà sogno a occhi aperti per una potenziale ricomposizione della normalità – forse, l’ultima possibile. I topi non avevano nipoti, recita l’espressione palindroma: se qui li hanno, giusto che sbuchino dall’ombra alla ricerca di chiarezza, in risposta a terrore e torpore, prospettando ai secondi l’ipotesi d’un nuovo sol dell’avvenire. Un’altra Cosa.

Francesco Saverio Marzaduri

Commenti

Post popolari in questo blog

Questione di sguardi

Rovineremo la festa: THE PALACE

Oltre ogni ragionevole dubbio: la parola a Friedkin