TITANE: gloria e vita al nuovo cinema?
Titane:
gloria e vita al nuovo cinema?
Non
è una novità. Con la crisi da cui sempre più dipende il destino
delle sale, e la relativa concezione di fruizione,
lo sport più praticato pare ormai lo svelto giudizio di un prodotto
all’uscita. Che poi il passaparola attraverso media e social
network
contribuisca al suo successo, è forse la dimostrazione di quanto
tale forma d’intrattenimento si riduca a tendenza destinata a
dissipare in fretta, senza lasciare giudizi più profondi. Ed ecco,
allora, transitare dalla trasposizione di Villeneuve da Herbert (che
comprende, ineluttabile, il confronto con l’adattamento di Lynch)
alla riuscita o meno dell’ultimo Moretti, sino al fresco kolossal
medievale di Ridley Scott o allo scandalo posticcio su La
scuola cattolica,
che ha obbligato gli esercenti al divieto ai minori di diciott’anni.
E sempre in tema di titoli controcorrente, non è dato ancora sapere
se la recente Palma d’oro assegnata a Titane,
secondo lungometraggio della trentottenne parigina Julia Ducournau,
fosse sul serio degna
del premio; trattandosi d’una giuria capitanata da Spike Lee, di
primo acchito, viene da pensare che lo sfottò prevalga su ragioni
maggiormente encomiabili, essendo la Ducournau la seconda cineasta
donna a portarsi a casa l’onorificenza più importante. Ugualmente,
almeno per chi scrive, neppure un palmarès
riesce
nell’impresa di conciliare pubblico e critica con un’opera
disturbante, apparentemente inclassificabile, i cui controversi (e
prevedibili) dibattiti non ne hanno sancito l’immediata fortuna. Al
di là di qualsiasi opinione personale, dovuta a estetica o a
semplice buongusto, si potrebbe accogliere Titane
quale allegoria sulla situazione in cui versa l’assorbimento
cinematografico: col rischio che una buona dose di sessualità
deviata al limite della crisi identitaria, e una manciata di
cattiveria tra carne martoriata e sangue a profusione, si risolva in
un’effimera provocazione, se non in un compiaciuto scandalo.
Provando a cimentarci nel gioco, seguendo una logica che chiede di
trascendere l’immagine ostentata, l’Alexia cui un’impassibile
Agathe Rousselle presta lineamenti d’amazzone – almeno nella
prima metà – altro non è che l’oggetto (del desiderio) filmico
traumatizzato all’origine (riottosa fin da bambina, la Nostra è
vittima d’un incidente stradale il cui esito è una placca di
titanio
impiantatale nel cranio) e, una volta adulta, sensuale lap
dancer
in uno stand promozionale di auto dove lei e colleghe si esibiscono
su sgargianti
vetture, ridotta a mercimonio di piacere. Fin qui, la
regista-sceneggiatrice replica il talento a forti tinte già mostrato
nel lungometraggio con cui debuttò
cinque anni prima,
Raw – Una cruda verità,
riproponendo una protagonista afflitta da voglie incontrollabili
sfocianti in improvvise esplosioni di collera,
stavolta di matrice sessuale: sicché la catena di omicidi
di cui autrice – le cui vittime, uomini o donne che vorrebbero
avere rapporti con lei, sono tolte di mezzo con uno spillone per
capelli – ricondurrebbe Titane
sul terreno
dell’usuale thriller con omicida seriale al centro, e a un’efferata
sagra del déjà
vu.
Né sono rare, come lecito attendersi, le parentesi in cui gli scoppi
di violenza richiedono nervi saldi allo spettatore, nella misura in
cui l’incombente quid
sinistro
galvanizza
la
mente prima dei sensi. Se si ha il coraggio di andar in fondo, senza
nausearsi nemmeno davanti a un fallimentare tentativo di aborto, non
dovrebbe costituire un problema comprendere come l’horror
francese, di preferenza extreme,
non nasconda di mirare a una percezione innervata di stimoli più che
d’un pur presente comparto grandguignolesco; tanto
meno dovrebbe stupire che la gravidanza di Alexia sia dovuta a un
amplesso in un abitacolo con una presenza astratta – forse, la
stessa automobile baciata e abbracciata dopo l’operazione. A sua
volta, il film dà l’idea d’un ápeiron
slegato
da connotazioni ipertestuali, così come il glaciale, taciturno
personaggio preferisce non avere legami coi familiari (si pensi al
suo mutismo verso i genitori, in particolare l’insofferente padre
Bertrand Bonello) o alcuna forma d’amore per gli altri (la rabbia
omicida che sostituisce l’orgasmo), configurati quale reazione
gravemente patologica a un malessere che non trova soluzioni
pacificatrici: nel primo caso lo stile espressionistico e allucinato
del neo-orrifico – che individua la radice sinestetica in nomi
quali Rollin, Franju o Tourneur – trasla i propri risvolti
d’onirismo in allucinazione, ossessione, psichica deriva, mentre
nel secondo le giovani figure che l’abitano, da subito immerse in
situazioni prive d’uscita, sono prigioniere d’un trascorso dal
quale costrette
ad allontanarsi, a costo di lacerare
(e riplasmare) corpo e fisionomia. Il che spiega perché Alexia sia
una macchina programmata per uccidere in costante fuga, il cui
titanio in testa simbolizza una resistenza al mondo meccanicamente
restituita come un impassibile cyborg;
la scelta di deformarsi il viso, frantumandosi il setto nasale per
somigliare a un ragazzino scomparso, peraltro rimanda all’episodio
finale di Adrénaline
dove
un
anonimo
volto, tumefatto dai pugni d’una figura invisibile, si riduce a
grottesca maschera. Tuttavia, se l’esperimento di Ducournau
suona una metafora della fruizione
cinematografica, della sua morte e plausibile resurrezione, lo si
deve all’incontro della fuggiasca con Vincent Lindon: un pompiere,
che reca l’identico nome dell’interprete e la cui divisa elegge
ad angelo salvifico, filantropo e padre adottivo, probabilmente
conscio dall’inizio della reale natura dell’intrusa; nonostante
l’iniziale, reciproca diffidenza, entrambi sguardi complementari
d’un unicum
antitetico,
silente e marchiato da dolore – da una parte il Male obbligato ad
esser tale in cerca di rifugio,
dall’altra il Bene bramoso di compagnia, infettato da solitudine e
droga (le
iniezioni di anabolizzanti nei glutei).
La frapposizione tra poli(sensi) non costituisce più un dilemma, e
arcinoto è lo sviluppo dai tempi di Stevenson: ma qui l’umanità
(mai) sopita emerge inattesa divenendo azione benefica (la
respirazione bocca a bocca per salvare una vita al ritmo di Macarena)
e
liberatorio fragore di vitalità (l’androgina Alexia
rivela la femminilità esibendosi per i nerboruti colleghi sulla loro
camionetta). E nello sgradevole epilogo si eleva ad aritmetica
catarsi, quando l’ospite aiuta l’agonizzante “figlio/a” a
partorire
il nascituro del domani (cioè il cinema venturo). Lasciamo perdere
ammiccamenti e rimasticature, da Cronenberg a Refn, su cui già è
stato copiosamente dissertato al limite del convenzionale (e ai più
oculati, nella metamorfosi sessuale, non sfugge l’eco di Boys
Don’t Cry):
Titane
non mira a porre interrogativi,
né a formulare risposte. Nondimeno,
in una persistente cura
al dettaglio visivo moltiplicata da repentini specchi e punti-luce
accecanti che ne fanno un lavoro fantascientifico (a cominciare da
uno scenario apocalittico speculare a quello rosso fiammante
dell’altrettanto recente Mondocane),
l’osservatore meno attonito è colto in castagna nell’istante in
cui tutto è esibito; e anche questa, chissà, costituisce
un’ulteriore boutade
tra
numerose altre, come il
ventre da gestante lacerato da un’inscalfibile scorza di titanio.
Sospeso è il quesito-ultimatum: neo-arte visiva o parodia di essa?
Francesco Saverio Marzaduri
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