Ore 9, calma piatta: DIABOLIK

Ore 9, calma piatta: Diabolik 


Nulla a che vedere col thriller di Phillip Noyce: chi scrive, giocosamente anticipa di un’ora l’esatto titolo giacché l’iniziale aspettativa per il nuovo Diabolik – dopo la solita tornata di spot ritardante la proiezione, prevista mezzora prima – non ha corrisposto ai risultati effettivi. In tale circostanza, la grama affluenza del pubblico non spiega completamente un triste fenomeno su cui molto vi sarebbe da dire; senza dubbio, l’allarmante diserzione dalle sale durante le recenti festività è tanto attribuibile alla collettiva pandemia quanto all’avvento delle più comode piattaforme, senza che il piccolo schermo restituisca identica emozione. Nel gramo menù, lodevoli si sono mostrati i propositi, contando, tra i pezzi grossi, sul caso Gucci in satirica versione dark o sul reboot griffato Spielberg di West Side Story, in aggiunta al catastrofico Don’t Look Up o al ritorno di Spider-Man, prevedibile asso pigliatutto al box office. E in tema di fumetti, eccoci arrivati al punto: l’ambizione d’un cinecomic italiano che si distanzi dalla prima trasposizione del ’67, senza alcunché da invidiare ai più competenti colleghi d’oltreoceano, s’impegola in un anelito dal faticoso aggiogamento: troppi i ghiotti percorsi da carezzare, fingendo per un istante di non sapere che il cinema di genere, coniugato al mero intrattenimento, rischia d’inciampare in azzardi eccessivi (lo dimostra il dittico dedicato da Salvatores al Ragazzo invisibile). Col solito esito del topolino scaturito dalla montagna. 
Nonostante il COVID-19 abbia ritardato l’uscita della loro settima fatica, i Manetti Bros. avrebbero dovuto far tesoro dei giudizi altalenanti su Freaks Out, tuttavia – in concomitanza con la lavorazione del film di Gabriele Mainetti – l’idea di riadattare il fantomatico “re del terrore” creato da Angela e Luciana Giussani, alla soglia del dodicesimo lustro, era in essere già da tre anni. Altre due puntate della saga sarebbero in cantiere, ciò non toglie che la confezione popolare non sia operazione da concepire a tavolino, ché il segreto risiede nella primigenia componente del fantasy: l’ingenuità. Nella prima settimana d’uscita Diabolik ha conquistato, con onore, il terzo posto al botteghino e il primo tra le produzioni italiane; c’è da dubitare che i dieci milioni di budget siano giustificati da unanimi consensi: il tentativo di fare del ladro mascherato un apologo teorico, scrupoloso nei risvolti psicanalitici prima che nel ritmo, rimane imbrigliato nella medesima tela concettuale dedotta dall’ispettore Ginko (un Valerio Mastandrea la cui cerata fisionomia lo fa sembrare Christopher Lee). Si potrebbe cavarne materia per parlare di un altro e non nuovo fenomeno che gli ultimi giorni sembrano aver ribadito: la critica scissa tra stampa e social, ridotta a mega-circo di massa in cui la gara a chi la dice più lunga (o più grossa), pro o contro, sopperisce all’effettiva qualità. Nel caso specifico, non ci si trova di fronte a una fanfaronata, eppure tocca constatare come la tenuta d’insieme vanifichi quasi ogni sforzo e, nonostante la meticolosità, il senso d’attesa sia frustrato dalla reale emozione; le molte idee di copione fanno della rivisitazione una sorta di tv-format (il che non sorprende: basti l’enorme contributo dei registi-sceneggiatori al piccolo schermo, raggiunto con Coliandro), vintage ma sfuggente, che priva la magica nostalgia di autentico guizzo. 
Ne segue un polar nostrano da seguire per ritagli, per gran parte di volenteroso virtuosismo, quanto carente di unità: si va dal flashback a incastro, adibito a ricomporre il mosaico, a trucchi di collaudata ortografia (le tendine, lo split screen nelle parentesi più tese, l’impiego d’una m.d.p. ora instabile ora voyeuristica), con inserti rispettosi della carta (il caveau del furfante, l’alfabeto Morse esplicato dalle diciture), sino ad artificiosi coup de théâtre costantemente tesi a giocare con la verosimiglianza. Memore della confezione d’inchiesta disseminata di citazioni, fa capolino persino la connotazione politica (i documenti segreti del viceministro Caron, interpretato da Alessandro Roja). Virtù che non oscurano topiche quali un’esplicita recitazione sopra le righe – eccezion fatta per una raggiante Miriam Leone, Luca Marinelli è di glaciale imperturbabilità – o alcuni errori di script, di forzata macchinosità. Se l’originario spirito del famigerato personaggio è rispettato, è inevitabile non ripensare ai giocattoloni di Fleming (l’accessoriata Jaguar), al Lupin di Leblanc o a Fantômas (si pensi alla fugace apparizione di Claudia Gerini). A uscirne meglio è la patina letteraria, con echi di Conan Doyle, Simenon, Highsmith, e soprattutto debitrice del feuilleton francese fine ottocentesco. Detta variante è, fondamentalmente, un mélo incentrato sull’incontro tra due anime gemelle, emarginate e similari, cui spetta nel finale una scelta radicale: un rapporto complementare e unico, fondato sul rispetto reciproco prima che sul sentimento, la fiducia e condivisione di un assurdo stile di vita. 
Criminale e spesso assassino, Diabolik – al secolo Walter Dorian – è fedele a un codice d’onore che non abbandona mai, le cui malefatte si spiegano con un’imperitura sfida con sé stesso. Vedova d’un ambasciatore sudafricano morto in circostanze misteriose, e forse implicata nella sua scomparsa, Eva Kant delinea un modus diverso e moderno di femminilità, emancipato e ambizioso, freddo e coriaceo; ex ballerina e spia industriale, in apparenza gentile, raffinata ed elegante, è proprio lei a salvare il protagonista ribaltando l’usuale canone, animata da un singolare frizzo per il brivido, e, dopo l’incontro con lui, un’energia e un’attrazione incontenibili per il dinamismo (spara dardi con mira infallibile, possedendo destrezza, sangue freddo, amore per la velocità). Il ritratto di Eva è una combinazione di Protea, Lady Beltham, Irma Vep, Diana Monti-Marie Verdier e Contessa Mado, più che le molteplici Serial Queen: dapprincipio capricciosa e gelosa, infelice della propria esistenza ed eccessivamente attratta dal lusso, il suo è un incredibile percorso di crescita che, da mera spalla al servizio del partner, la porta a divenire coprotagonista a tutti gli effetti, libera e indipendente nelle scelte – talvolta, anche di sottecchi dal complice. Una formazione netta, come donna e delinquente: non impiega molto, Diabolik, a rendersi conto del suo valore, concedendole sempre più margine e intuendo quanto necessiti di lei, la rispetti e la ami. 
Nondimeno, la vogue sensazionalista caratterizzante il mercato cinematografico d’oltralpe, nella seconda metà dei Dieci, sollecitava quel gusto del brivido e fascino, eccentrico e tenebroso, assente nei Manetti. Di tal aspetto, motivato a posteriori da pagine di spiegazioni retrospettive, la sinteticità dello schermo ne esalta il carattere recisamente arbitrario (Diabolik è incastrato perché in possesso dei travestimenti, mentre i salti temporali ne illustrano i retroscena dei colpi). Qui il rischio non è valorizzato, il gusto della libertà non si dà automaticamente quale gusto del pericolo: manca il piacere dell’intrigo, l’azione movimentata di risultato incerto, il sapore del brivido e della suspense. Se poi la catastrofe è l’emblematico topos che l’istante singolare assume nell’action movie, ovvero l’effigie del climax, ciò manca a un adattamento che, parsimonioso, predilige l’istante in oggetto – escludendo l’inseguimento in apertura – senza che vi sia sperimentazione sulle figure dell’azione o elaborazione nell’estetica del thrilling, né cliffhanger tra i passaggi o sfruttamento intensivo del climax. E l’apporto della costumista Ginevra De Carolis, nello svolgere un compito troppo attiguo a Al paradiso delle signore, profuma di arbitrario. 
Impresa non facile, insomma, tenendo conto il proposito di realizzare un film di e non su Diabolik, volto a soddisfare gli aficionados, malgrado qualche licenza. A favore della riscrittura, però, trapela una dichiarata onestà intellettuale degli autori (“La cosa più vicina al raggiungimento di un sogno, ottenuto attraverso il lavoro, la pianificazione, la perseveranza”), indotti da un desiderio di mise-en-scène in linea con un’interpretazione e uno stile naturali, ma – seppur fedeli al terzo albo della serie, L’arresto di Diabolik – distanti dalla pagina e più adiacenti a un esperimento cinematografico; a coronare il progetto il coinvolgimento in primis di Mario Gomboli, erede artistico delle ideatrici del fumetto. “Non volevamo girare un’opera ambientata negli anni Sessanta – continua Antonio – ma un film girato come negli anni Sessanta”. E ancora: “Nel corso della nostra carriera, il termine ‘alla Diabolik’ è sempre stato un modo d’impostare alcune scene, la scelta di un certo tipo di location o alcuni espedienti narrativi. Il nostro lavoro è pieno di queste suggestioni. La fedeltà non esiste: quando metti in scena un fumetto che ami, in realtà fai un lavoro soggettivo”. Ed ecco una sequela di riprese che, ostentando l’immaginaria Clerville, alterna gli scenari di Courmayeur a quelli di Bologna e Milano, concludendosi nel Ravennate, con qualche scorcio di Trieste a raffigurare Ghenf. Il tutto innesca un’impressione di surrealismo urbano, percorsa da un’anonima folla come un dedalo: una realtà parallela, popolata da uno spettrale ladro e una dinamica ragazza, ch’è una doppia esposizione dello spazio quotidiano della città. Un’esperienza estetica non più circoscritta all’aureo consumo di un prodotto artistico, ma estesa a un’area fenomenologica allargata a una situazione di tipo nuovo, in cui la surreale superficie si traduce in dominio dei fan, a cominciare dagli stessi Manetti; merito di una collaudata équipe di sodali (Francesca Amitrano alla fotografia, Noemi Marchica per le scenografie, Pivio e Aldo De Scalzi alle musiche, Michelangelo La Neve co-sceneggiatore, e via elencando) con cui i cineasti romani hanno creduto di ripetere i fasti di Song’e Napule o Ammore e malavita
Se il rodaggio è il fine ultimo del primo episodio, in attesa dei successivi, prendiamo per buona l’ambiguità dell’esito quale coerente ossequio al medium, congelante il dinamismo del fotogramma a favore della staticità della tavola – opzione azzardata, stando al tradizionale heist tutto prontezza e montaggio frenetico. Soltanto, non avrebbe guastato quel quid aggiuntivo (il bianco e nero al posto del colore) che avrebbe calcato il prototipo traslandolo in balocco cinephile; e un po’ si rimpiange l’eccesso pop che, nella prima versione di Bava, leniva rutilante il tradimento come le immancabili parodie. Perché la verità – per dirla con Manuel Agnelli nel brano in chiusura – si può cambiare. Si può travestire. 

Francesco Saverio Marzaduri 

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