Rivincita di una “colpevolezza”: ENNIO

Rivincita di una “colpevolezza”: Ennio 


Sarebbe stato imperdonabile buttar giù quattro banalità commemorative, il giorno in cui Morricone è scomparso: era necessario, prima, sentire che la magna opera del maestro – l’amore e la passione alla ricerca d’una sperimentazione ogni volta maggiore, lungo un intero arco esistenziale – non fosse cessata di colpo con la sua morte. Perché, come insegnava Fellini, il sogno ha bisogno di continuare e, cosa buona e giusta, la parola “fine” non deve spezzare l’incanto. Tanto più se si tratta del milieu musicale e di un autore a cui molto deve il cinema tout court, quello internazionale e non solo italiano: quello che tardivamente ha realizzato di non avergli riconosciuto per tempo la debita grandezza. Undicesimo lungometraggio di un Tornatore non al suo primo documentario, Ennio è la testimonianza di quanto sia possibile coniugare le due citate ragioni, offrendo al pubblico la possibilità di udire un’ultima volta la voce (umana) di Morricone, dunque la migliore offerta – e l’estrema corrispondenza – per ascoltare molti suoi capolavori seguendone la genesi, nonché l’esigenza di confezionare un equo tributo a un altro uomo delle stelle; un uomo, prima che un artista, segnato da glorie e vicissitudini, applausi e rimpianti, umiliazioni e riconoscimenti. Del resto, non poteva essere che un cineasta da sempre fedele al prototipo leoniano a tentare l’impresa, inaugurata sette lustri prima, quando Tornatore conosce il musicista romano per Nuovo Cinema Paradiso e la cui collaborazione sarebbe proseguita in altre occasioni. Quasi tre ore di spettacolo senza che la durata minimamente s’avverta, in cui session, prove, concerti si (con)fondono con interviste assortite e filmati d’archivio, inediti e rarità, a confezionare una sinfonia audiovisiva pressoché perfetta. Se l’esperimento, riassunto in poche righe, potrebbe risultare convenzionale (e ironicamente parafrasarsi La leggenda del trombettista sull’oceano), il reale colpo d’ala consiste nel ribadire il crescendo dell’arte morriconiana, mentre fotogrammi di celebri pellicole musicate dal Nostro, da C’era una volta in America a Mission, si mescolano incessanti ad immagini dello stesso, assorto nella direzione orchestrale, e alle testimonianze: il tutto, architettato come una scena madre, giunge dritto al cuore dello spettatore, come una rinnovata epifania. È come assistere visivamente a un’ulteriore composizione musicale, riconsegnandole identica epicità e offrendo un esaustivo ritratto storico sul secolo di un Paese ove cultura e cinema, dominando la scena ancora una volta, ebbero voce in capitolo. Il solito discorso della piccola ghianda da cui nasce la grande quercia? La risposta già è nell’incipit, poco prima dei titoli di testa: mentre volti di cartello (Paoli, Morandi, Caselli, Argento, Bertolucci, Wertmüller, Eastwood, Metheny, Springsteen...) sfollano condensandone la grandezza, un metronomo in movimento scandisce le azioni d’un Ennio intento a far ginnastica, radunare pensieri, meditare idee, muovere perennemente le mani al centro d’un maestoso studio strabordante di volumi, spartiti, fogli d’album. Il senso del ritmo e del tempo, rispettivamente forma e contenuto, costituiscono il senso imprescindibile dell’operazione decretandone appieno la riuscita, essendo le chiavi principali della perfezione melodica. Sono il “magico accordo” che consente a Morricone, ancora fresco dell’esperienza-canzonetta (è lui, in extremis, a salvare dal fallimento l’RCA), di rincontrare un vecchio compagno di scuola, Sergio Leone, e forgiare l’arcinoto sodalizio. Perché Ennio è anche un apologo sul senso di riscatto da ingiuste umiliazioni: se il secondo dichiarò di cimentarsi nell’esecrata regia per risarcire il padre, considerato un mestierante da poco, il primo – rilasciando aneddoti che non sempre ne frenano la commozione – confessa quanto successo e denaro ne abbiano sminuito la formazione classica. Pure nel caso del compositore romano fa capolino la componente paterna (il babbo lo introduce alla tromba, vanificandone l’aspirazione medica), ma la conoscenza con Goffredo Petrassi gli conferisce quella vocazione e quel talento che colleghi e amici del medesimo ambito gli invidiano e, sulla cresta dell’onda, rinfacciano. Persuaso che comporre musica per lo schermo equivalga a prostituirsi, Ennio prende di petto la sfera eufonica quale esigenza di rivalsa, nella strenua ricerca del tocco che abbini prosa e poesia (“Le note sono come mattoni per un palazzo, ma i palazzi non vengono uguali”). Una magnifica ossessione che l’obbliga a provarsi in ogni genere, a cominciare dall’inclusione di citazioni colte nei 33 giri: il trampolino di lancio per Il federale di Salce, in aggiunta a qualche precedente innesto (la scherzosa ninna nanna del Giudizio universale), conduce alla svolta nello spaghetti western con lo pseudonimo Dan Savio, e al conseguente trionfo col tema di Per un pugno di dollari (che, riascoltato anni dopo, non piacque né a lui né a Leone). Soprattutto la novità del rumore assurto ad armonia, ispirato dalle composizioni post-weberniane, che ne fa un innovatore del pop nostrano, nella misura in cui i leitmotiv e il conseguente record di vendite finiscono per sovrastare le pellicole cui appartengono, divenendo film a loro volta. “Questo mi ha un po’ isolato”, afferma, dispensando vergogna quando De Laurentiis e Huston, licenziato Petrassi, lo chiamano per La Bibbia, prima che l’RCA annulli la cooperazione; persino Kubrick lo contatta per Arancia meccanica ma Leone, pur di tenerselo stretto, inventa la scusa ch’è all’opera con Giù la testa, benché la partitura sia pronta da un pezzo. Nel monumentale affresco i cui retroscena vanificano aspri giudizi critici (Novecento) e disegni registici sfocianti in un’involontaria quanto ineludibile autoreferenza (si pensi ai temi pressoché identici de I cannibali e Queimada), ne emerge il ritratto di uno studioso enigmatico e schivo, perennemente combattuto dall’anelito della perfezione sonora, tormentato da una messa in gioco che lo trasforma in attento psicologo verso i cineasti per i quali, di volta in volta, si pone al servizio (“Lo scrivo io, l’articolo in tua difesa”, ribatte Zurlini), e la cui passione per gli scacchi, da esplicita allegoria, giustifica la scommessa con l’esistenza e il desiderio del potenziamento. A impreziosire il prodotto pensano alcune belle idee narrative: dai primissimi piani del protagonista che s’intrecciano con quelli dei vari ospiti, in sedute diverse, a conferire dinamismo partecipativo, alla fotografia a colori (da Indagine su un cittadino a Sacco e Vanzetti) che sublima nel bianco e nero, restituendo nuovo valore semantico al documento storico. O ancora, lo split screen in due parti su Ennio nell’illustrare i rispettivi paradigmi compositivi, quasi fosse una forma a due voci. Chi perseverasse nel dubitare delle capacità di Tornatore, altrove tradite da esiti altalenanti, sarebbe qui smentito da un genuino atto d’amore verso il cinema (e la vita), ancora capace, secondo il collaudato tropo delle scatole cinesi, di fare capannello, stringere un coro nel segno della mitopoiesi e dirompere l’escalation conclusiva in una collettiva standing ovation. Indipendentemente da ciò, il miracolo si compie a raggio completo, trasmettendo la lezione che fu (e sarà, e seguiterà ad essere) anche a fresche leve. “Un grande artista non è mai povero”, sigla candidamente Babette, “abbiamo qualcosa di cui gli altri non sanno nulla”. La meta da conseguire è qualcosa di sfuggente anche al più solenne tra i virtuosi? Basti e avanzi l’esempio a sancire che non è mai la fine, quand’anche si reciti il proprio commiato. E portare avanti la missione d’incantare gli angeli. 

Francesco Saverio Marzaduri 

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