La senilità della fiaba: OCCHIALI NERI
La
senilità della fiaba: Occhiali
neri
Sgombriamo
il campo dagli equivoci: non fosse per i consueti passaggi dati i
quali si reputa di culto, anche nelle operazioni più detestabili, la
filmografia di Argento, Occhiali
neri
proseguirebbe tranquillo la senilità del suo autore. Ciò che da
sempre colpisce gli aficionados
del genere orrifico risiede nella disinvoltura di stilemi tramite i
quali il desiderio di raccapriccio sfiora il punto di fusione con
l’antica tradizione leggendaria, all’occorrenza costellata di
abbondanti sfumature gotiche o, nello specifico caso, dark.
L’opera di Argento non è che un’ininterrotta fiaba macabra,
ribadita da ipertesti narrativi precisi che, prima di questa
ventesima prova cinematografica, riadattano Bram Stoker o, in
precedenza, Poe e Leroux: nomee tutelari chiamate a rammentare come
la voluttà del brivido, la brama di ribrezzo sopita nei più
reconditi anfratti dell’incognito Nulla, eredità d’una memoria
irrinunciabile, non svanisca mai completamente. Figurarsi dunque se
la componente-cecità, strumento che nell’avversa sorte agevola la
soluzione d’un enigma, non si ripresenti aggiornata, a mezzo secolo
di distanza da quel Gatto
a nove code
in cui il cineasta romano la utilizza per la prima volta. Materia
ghiotta per i cultori del genere, giustificata da un meditato ritorno
alla regia dopo due lustri, per il quale Argento riprende uno script
di vent’anni prima, firmato a quattro mani col sodale Franco
Ferrini; e al pari di Phenomena,
primo lavoro del sodalizio, in Occhiali
neri fa
capolino un denominatore comune: non tanto l’opzione d’una figura
incosciente, e dunque “non vedente”, quanto quella di ambientare
l’apologo nei pressi d’un bosco che obbliga i protagonisti a
sfuggire all’assassino, nonché teatro di un’aggressione – in
verità gestita infelicemente – in uno stagno infestato da serpi. A
prescindere da tale scelta di campo, la presenza faunesca cui spetta
un ruolo di demiurgico salvatore (qui un cane da guardia, che
richiama l’aiuto da parte d’uno sciame di insetti, d’uno
scimpanzé o uno stormo di corvi) concorda con un luogo, la foresta,
che è sfondo di assunti fantasy
secondo
il collaudato cliché favolistico, con tanto di capanno disabitato;
né manca l’inserto dei cacciatori che i personaggi incontrano
durante la fuga. La stessa inclusione d’un ragazzino cinese, a
pensarci, conduce Occhiali
neri
lungo il sentiero della mitopoiesi infantile, come altrove
sperimentato in una parentesi di Opera.
Sicché l’esito senza infamia né lode conferisce una sensazione di
patetico trasporto, riconducibile a una memoria ludicamente
anacronistica più che a una rentrée
autoriale. Tempo addietro si rimproverava ad Argento l’abitudine di
costruire il racconto per agglomerazione; l’assenza di qualsiasi
pretesa nel tentativo di agganciare lo spettatore a lacunose
spiegazioni dell’arcano, col senno di poi, è divenuta una cifra
tanto ricorrente da indurre il sospetto, più che lecito, che la
quantità (commerciale) sulla qualità (artistica) sia luogo canonico
ricercato a bella posta, quando non standardizzato. Se si affermasse
che quest’ultimo prodotto non fa eccezione, si trascurerebbe un
dato non irrilevante: la confezione thrilling a base di eccessi e
truculenza, ove il comparto pauroso fa perenne leva sull’epidermico
anziché sulla coscienza, non basta a tener insieme un aneddoto
buono, tutt’al più, per una serie televisiva in cui le giunture,
poliziesche o intimiste, goffamente s’insinuano nell’armamentario
grandguignolesco. Non si nega la disinvoltura (e la faciloneria) con
cui il regista-sceneggiatore ostenta fin troppo generosamente gli
effetti speciali del fido Sergio Stivaletti, accompagnati
dall’incalzante musica di Arnaud Rebotini. A latitare è ancora una
volta una sceneggiatura irta di assidui passaggi forzati e inutili
lungaggini, in cui le cadute di ritmo (aggravate dalla colpevole
quanto abborracciata volontà di spiegare quanto risulti poco chiaro)
accentuano l’evidente inverosimiglianza, come la presentazione di
Diana e della sua “professione”, illustrate in modo sbrigativo, o
l’agguato automobilistico in cui la escort
perde la vista. Né costituisce novità che una recitazione pedestre
non sia l’aspetto cui Argento guardi maggiormente, data
l’involontaria ilarità di situazioni e dialoghi. Semmai, Occhiali
neri
è un lavoro da godere per assaggi, minuto per minuto, in un climax
di tensioni che non si fondono l’una all’altra: anche se dopo
meno di mezzora si capisce tutto, il risultato giunge come un pezzo
d’antiquariato, in cui la mano del maestro che fu si rintraccia
nella reiterazione di fondu,
soprattutto in una prima metà scissa in capitoletti; tanto che il
nero, da subito, è componente cromatica di diegetica rilevanza,
pensando all’eclissi solare prima dei titoli di testa, in cui la
notte sostituisce la luce del giorno (speculare all’abito bianco di
Diana nel finale), nella misura in cui l’abbaiare dei cani, nemmeno
di sottecchi, amplifica il sinistro presagio, compresa la cecità
della protagonista. Cocci d’una bottiglia semivuota, insieme al
noto feticcio di architetture e luoghi geografici (il quartiere
dell’EUR), relativamente al quale nomi
altisonanti della critica, per contingenza estetica e/o per
geometrico disegno, apparentano il film ad Antonioni (e c’è chi da
un pezzo sostiene che
Blow-Up abbia
ispirato
Profondo rosso).
Nel rapporto materno-filiale tra la prostituta e Chin,
malinconicamente destinato a concludersi, s’individua però una
componente d’insolita morbidezza: lo sguardo argentiano s’è
fatto via via meno misogino e più tenero (la stessa figlia Asia, qui
anche produttrice esecutiva, si ritaglia il ruolo di un’operatrice
ausiliaria, anch’ella vittima). E magari non è un caso che
l’immissione d’un allevatore di cani, dopo il riadattamento del
“Canaro” a firma Garrone, suoni un’apocrifa variante: come un
passaggio di consegne tra generazioni registiche. In attesa di
vederlo interprete dell’imminente Vortex,
diretto dal discepolo Gaspar Noé – nemmeno a dirlo, un aneddoto
pessimista incentrato su un’esistenza al crepuscolo – l’anziano
Dario si congeda davanti all’inappellabile mutamento, testimoniato
dalla solitudine della escort
col proprio cane nell’ultimo fotogramma. E chi scrive, tardando a
visionare la celere uscita di Occhiali
neri in
sala, s’è dovuto accontentare di riesumarlo su piattaforma, altro
allarmante monito.
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