L’eredità di Bazin

L’eredità di Bazin 


Cosa lascia André Bazin, a più di sessant’anni dalla sua scomparsa? Stando al lavoro certosino firmato da Hervé Joubert-Laurencin e all’impegno della casa editrice Macula – che ne han reso possibile il complessivo riesame con la pubblicazione, in patria, di testi ormai poco frequentati e reperibili – il pensiero di questo decano della critica cinematografica rivela come la propria attualità non abbia smarrito una virgola dell’originaria freschezza nell’esegetica, né di un modo di concepirla. Nella fattispecie, la ridefinizione d’un linguaggio fattosi tratto distintivo da oltre mezzo secolo a questa parte, soprattutto in relazione alla recente produzione audiovisiva e alla conseguente rimodulazione della pratica cinematografica contemporanea, consente di riflettere sullo stato attuale dell’arte, e su talune possibili traiettorie individuabili nell’odierna produzione audiovisiva di cui, alcune, legate a doppio filo alle intuizioni baziniane. Invero non basterebbe un capitolo, a racchiudere la genialità di tale sintesi. Sciocco sarebbe, anzi, cercare di condensarne il nocciolo in una sorta di aggiornato bignami. Eppure, scorrendo il magma di pagine da lui dedicate alla cinematografia, si resta colpiti dalla concezione di sacralità, futura materia – se non privilegiata fonte di studio – dei numerosi discepoli destinati a seguitarne il percorso e, se possibile, senza venir meno alla doverosa considerazione, ridiscuterlo. La necessità di rammentare Bazin, nell’era in cui web e piattaforme paiono aver abolito e sostituito il fotogramma cinematografico a scapito d’idee, è resa più necessaria dal crescente disinteresse nei confronti del paradigma critico che propone: benché la terminologia impiegata dal francese possa suonare oggi troppo elaborata, ridondante, faticosa in disamine e dettagli, non può esservi confronto con alcun parametro dozzinale svilito da troppi vaniloqui di dubbia lucidità, quando non di artefatta insignificanza. 
Seguendo l’inversa logica, e nel tentativo di applicare un ragionamento di Bazin a un esempio tra centinaia, si prenda uno spezzone tratto dal morettiano La stanza del figlio: nel vano tentativo di esorcizzare la tragica, assurda scomparsa dell’adolescente Andrea, il padre Giovanni (impersonato dallo stesso Moretti) ascolta Synchronising di Michael Nyman e a un certo punto – telecomando in mano e sguardo perso nel vuoto – a più riprese riavvolge il brano riportandolo a un medesimo punto, anelando di oscurare la dolorosa realtà con un impossibile coming back. Ciò che in superficie potrebbe apparire fuorviante, o blandamente fuori contesto, riporta alla mente l’inchiostro del teorico relativo alla concezione di “morte”, dissertata come qualcosa di pudico nel senso etimologico del termine. Bazin lo ricorda all’interno del parametro documentaristico, eleggendo a prototipo un filmato sul mitico toreador Manolete: ne La Course de taureaux, prodotto e diretto da Pierre Braunberger, diabolica abilità nell’articolazione dei piani e discreta attenzione dell’osservatore impediscono di accorgersi d’un furbesco artificio di moviola. “Pervenire alla verosimiglianza fisica del découpage e insieme alla sua malleabilità logica”, è il principale fine del montaggio offerto dall’operazione: un quid che di lì in pochi anni, non ultimo in Italia, avrebbe costituito uno schema discorsivo restituito nel suo opposto, prostituendo la purezza in embrione e travisandola nella spettacolarizzazione nuda e cruda della materia documentata, finalizzata a un mercimonio estremo quanto gratuito. La dipartita è, in sintesi, fattore da mantenersi casto, inalterato quanto l’immagine ortograficamente computata, in cui l’ambizione del riadattamento letterario o la contrapposizione ontologia-linguaggio, attraverso una raggiera di spunti analitici, emergono quali parti integranti d’una comune matrice. 
Il pattern asettico rimane pressoché la lente d’ingrandimento tramite cui filtrare l’assortito genere o l’arte nel proprio complesso, all’occorrenza sbugiardando l’eventuale disonestà nelle scelte di campo adottate: si tratti del mito imponente d’una figura storica, della radiografia di un’icona o della trasfigurazione di essa, sorprendente e unilaterale, e della verosimiglianza più o meno speculare alla realtà del tempo. Sicché il documentario, in modalità ancora maggiore rispetto alla “veridicità”, appare forse il milieu più confacente in cui, proprio perché in costante evoluzione, è possibile testare la mutazione linguistica, ma pure l’assoluta attualità della notazione baziniana in materia di realismo. L’ostentazione linguistica di quell’oggetto sfuggente e complicato che appunto è la realtà. Nella misura in cui la trascendenza della confezione, che implica una relazione con oggetti quasi sempre refrattari a possibili restrizioni all’interno di generi o forme linguistiche codificate, rende specificamente ontologico il parallelo cinema-verità, nella sua essenza prima ancora che nella resa tecnico-linguistica. Logico che la rassegna di report bellici Why We Fight o lo stesso Neorealismo risaltino come lembi d’una dissertazione univoca, in linea con una trasformazione epocale che, giusta o errata, è l’esito semi-naturale d’un ordine nelle cose (e l’itinerario al capolinea, complici Rossellini prima e Fellini poi, impartisce che “santi lo si è solo dopo”). Persino i troppi anni di trasformazione avvenuti in ogni settore – non ultimi la cinematografia e la critica – attraverso sfumature inconcepibili nel periodo in cui la generazione di Bazin scriveva e teorizzava, risultano fenomeno tutt’altro che artefatto. Cambia il metodo analitico, cambia la ricerca, di conseguenza il tessuto sociale di volta in volta testimone: il che delinea su un piano bifronte una nuova apertura mentale, ma pure uno svilimento concettuale, dovuto in questo caso a un’ottimizzazione tecnologica con annesso armamentario strumentale, ove la fantasia è servita senza scrupolo di ragionamenti culturali o socio-politici. 
Fondato sul riavvolgimento del flusso temporale entro l’assunto narrativo, e adibito a modificarne il registro, il campione d’incassi Tenet, a prescindere dall’effigie ludica, esemplifica il tradimento del dogma baziniano: dietro l’opposto peregrinare dell’emisfero parallelo, trovata stratosferica sulla carta, la direzione temporale a duplice strato squaderna ben presto l’intento, arrancando senza che l’osservatore (e l’acuto cinephile prima di lui) si sorprenda granché. E si ripensa a un celebre aforisma secondo il quale, smentendo Godard, “la macchina da presa mente in continuazione, mente ventiquattro volte al secondo”. Ogni era ha la sua tecnica, ogni tecnica la propria voce in capitolo: l’aforisma di Lavoisier, da un pezzo è legge assodata. La metamorfosi dell’immagine, ogni quando perfezionata, è un franco modus operandi; così pure la sua trattazione, non esente da dubbi, critiche, detrazioni. Ma è altrettanto figlio d’un percorso unilaterale, dove l’onestà – primigenia componente – risiede in chi lo mette in pratica. Ecco l’altro irrinunciabile indizio cui non venir meno, al quale i noti alunni di Bazin, cresciuti a pane e Settima Arte, restavano fedeli (“Spudoratamente ambiziosi, spudoratamente sinceri”). E il decano dei teorici, certo, non ha bisogno di righe in cui il divulgativo incappi nel convenzionale, a rimarcarne l’eponimia superiore a tutto questo, al contempo schiva ed enigmatica. Ma siamo tutti un po’ figli di Bazin, e un po’ no. Ed è giusto così.

Francesco Saverio Marzaduri 

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