LICORICE PIZZA: quant’è bella giovinezza…
Licorice Pizza: quant’è bella giovinezza…
“Sai
quelli che non ci voglion bene
È perché non si ricordano
Di
esser stati ragazzi giovani
E di avere avuto già la nostra
età…”
GIANNI
PETTENATI
Che
funzione ha, prima d’ogni altra, quel chewing-gum da sempre
associato alle più giovani fasce d’età? Quella di masticarlo
incessantemente, spesso più del necessario, immemori
del tempo che scorre dietro quel vizio ed eventualmente surrogandone
altri meno salutari. Il sapore sbiadisce via via, finché la
ripetitività dell’atto non si fa meccanica e priva di gusto. Un
po’ come il “grande freddo” della sfera adulta. Nel caldo magma
di recensioni inerenti
Licorice
Pizza,
nono lungometraggio di Paul Thomas Anderson, l’accostamento non
s’ipotizza immediato. Come suggerisce la “poetica della
nostalgia”, ereditata da quel Nuovo Cinema Americano di mezzo
secolo fa mai del tutto accantonato, i tropi impiegati dal cineasta
nella restituzione della San Fernando Valley del ’73 si muovono su
un asse spaziotemporale tanto inestricabile, nell’iperrealista
effigie, da trasmettere la sensazione che l’anno in oggetto non
trascorra
mai. Quand’anche cospicuo
sia il corollario di eventi immortalato, e l’autunno dell’età
dietro l’angolo. Magari è questo, nel film, il segreto della
riuscita giacché, coinvolto nelle vicissitudini dei due giovani
protagonisti, lo spettatore si rilascia romantico auspicando che
succeda dell’altro e la conclusione si tenga il più lontano
possibile. Il prodotto, per celia del Fato, esce nelle sale italiane
nell’identica settimana in cui scompare William Hurt: il che
rammenta come ogni generazione serbi i propri iconici volti, nella
misura in cui si sottovaluta il corso del tempo e tardivamente se ne
lamentano i mutamenti. Caramella (o meglio, chewing-gum) di oltre due
ore, Licorice
Pizza
trasmette
una sensazione d’immediata empatia dal frizzante sapore, la cui
effervescenza non sortirebbe il medesimo effetto senza le tipologie
al suo centro: figurine ordinarie all’apparenza e tuttavia
non comuni, le cui fisionomie – nonostante un incipit da classico
teen
movie
– non rispondono a quelle tradizionali, appariscenti e
fantomatiche. Caschetto castano tutto lentiggini l’uno, avvenenza
compromessa da un naso arcuato
l’altra, divisi da dieci anni d’età, Gary e Alana suscitano
la
simpatia del pubblico in virtù di imperfezioni caratteriali e
antitetiche scelte, la cui inspiegabile vicinanza rende complementari
e spinge a cercarsi con sentimento ogni volta maggiore (“Io non ti
dimenticherò e tu non mi dimenticherai”, chiosa uno dei due). Di
fatto, il lavoro di Anderson non è che un perenne tira e molla irto
di incontri-scontri, dispetti, ripicche, liti e riappacificazioni,
puntellato di sorrisi, attriti e riabbracci, nel prolungato tentativo
di ritardare la condizione adulta, quand’anche la brama di emularne
la trasgressione, compreso l’atto di fumare, rientra in una
dimensione meramente ludica (la canzonatura di Gary ai danni d’una
vanesia star del palco). Luogo canonico caro anche a Baumbach, qui
tra l’altro manifestato da un simulacro di Herman
Munster
mentre concede autografi in uno stand, la recita della (e con la)
vita informa di sé l’intero assunto, permettendo a entrambi i
personaggi di atteggiarsi a ciò che non sono, giocando alle persone
mature senza esserlo, ignari delle disillusioni a venire;
irremovibile resta la voglia di scherzare, beffare (e beffarsi),
godendosi ogni attimo d’irripetibile freschezza. Non per nulla,
senza trascurare long
take
o lenti zoom,
il regista-sceneggiatore ostenta l’irresistibile verde età
prediligendo ralenti
speculari a marcatissimi primi piani, in cui i “faccia a faccia”
della
schermaglia finto-adulta sono vanificati, nell’impellente fatica di
crescere, dal genuino anelito della spensieratezza (l’ipotetica
vita su Marte intonata dal “Duca Bianco” Bowie nell’assortita
colonna musicale). Un transito da dissipare in fretta, scandito
dai timbri di Sonny e Cher in But
You’re Mine,
senza consentire di valicare il limite (la riluttante Alana accetta
di mostrare i seni a Gary, non permettendogli di toccarli); e
altrettanto ineluttabile è la paura di fronte a una repentina
infrazione bigger
than life,
quando,
catechizzata
dall’amico nel tentativo di vendere un materasso ad acqua, Alana fa
la provocante al telefono, con le gambe in bella mostra sul tavolo.
L’iridata gamma di mansioni accentua l’inversa (inseparabile)
tempra, lungo il labile (irreprimibile) filo dell’Assurdo,
nell’illusorio sforzo di emergere nel climax
post-sessantottino:
di volta in volta l’uno è liceale, attore, comparsa, imprenditore,
e l’altra assistente d’un fotografo, socia in affari di Gary,
valletta promozionale e operatrice di campagna elettorale. Quattro
sono le volte in cui i personaggi si perdono e ritrovano: segno che
l’atteggiamento materno di Alana vs.
l’infantilismo
del partner, dietro la superficiale intraprendenza, non evade da
un’usuale condizione di prigionia (la famiglia ebrea di lei:
opprimente e sputasentenze nei confronti d’un boyfriend
ateo, eppure favorevole a Gary), e in analoga misura il rapporto tra
i due oscilla come il camion in panne che la ragazza è costretta a
guidare in retromarcia, in piena notte, lungo le strade californiane.
Che il tempo sia una costante geometrica, e ogni volta l’amichevole
ménage
si rinsaldi attraverso gradazioni superiori, è confermato da un paio
di delicati episodi: la reciproca telefonata, sotto lo sguardo dei
rispettivi fratelli, cinta da un mutismo insostenibile mentre
scorrono i minuti, e l’inquadratura dall’alto che riprende i
ragazzi come silhouette su un materasso, volendo quasi accostarne i
fisici senza che qualcosa lo concretizzi (“You gave me something /
I understand / You gave me loving in the palm of my hand”, canta
McCartney in sottofondo). Non insensibile agli affreschi corali, da
Sydney
passando per Magnolia,
Anderson compone il mosaico sullo sfondo d’un Paese ancora lontano
dal revanscismo reaganiano, di lì a non molto testimone della fine
della “sporca guerra”, la cui presidenza Nixon è al centro del
noto scandalo e la politica, da un pezzo, ha rivelato aspetti poco
edificanti: l’embargo sul petrolio fa capolino sin dal titolo in
riferimento a una popolare catena di negozi di dischi, giacché il
vinile, i materassi, la gomma serbano comune origine; né manca
l’aura d’inevitabile paranoia, irrompendo drammatica nell’arresto
di Gary per errore (“Divertiti ad Attica, coglione!”, apostrofano
gli sbirri). Linea d’ombra che in Licorice
Pizza
incornicia la dolorosa iniziazione all’interno d’un juke-box
coloratissimo, pervaso di brani diegetici: la malinconica
rievocazione riesuma l’espediente d’una soundtrack
pressoché ininterrotta, come in tanti illustri antecedenti, fungendo
da componente testuale – frame
e comprimaria a sua volta – nella rappresentazione d’una perduta
chimera.1
E alla fluidità, e all’armonia che fa del film una sorta di
American Graffiti postmoderno,
contribuisce una metabolizzazione cinematografica mai fine a sé
stessa: I
ponti di Toko-Ri
o Lucille Ball s’insinuano, anacronistici, come le apparizioni di
Tom Waits e Sean Penn nelle caratterizzazioni di Peckinpah e William
Holden (qui ribattezzato Jack), laddove il salto in moto sulla rampa
infuocata riecheggia lo Steve McQueen de La
grande fuga.
Si tratti di assiomi o ideali proiezioni, Tarantino colpisce ancora
nella macchietta dello schizzato parrucchiere impersonato da Bradley
Cooper – citazione condita di esorbitanti stramberie, nel quale il
cinephile
individuerà il Warren Beatty di Shampoo,
modellato su quello vittima della strage di Bel Air. Benché i
prototipi non s’arenino, da Bogdanovich a Scorsese e a Cassavetes
(i familiari di Alana recano i loro stessi nomi anagrafici), Anderson
opta dichiarato per una semplicità in cui merchandising
e petrolio – elementi non inconsueti nella sua produzione – non
camuffano la diabolica parvenza dell’alienazione (i precedenti
Barry Egan, Daniel Plainview, Freddie Quell, Lancaster Dodd sono lì
a dimostrarlo). E nulla può sostituire quel senso di casuale
avventura, finanche venato di orrifica tensione, che obbliga la
protagonista ad allontanarsi indurita, pur talvolta sghignazzando
sotto i baffi alle balordaggini del compagno. Prima che una cronaca
di fallimenti, Licorice
Pizza
è la radiografia del tangibile miraggio ove il fardello della
responsabilità, per sfuggire all’imprigionante apatia, s’impelaga
in velleitarismi ancor meno appaganti: potenziale quintessenza
dell’emisfero maturo, la politica non è l’illuminazione in cui
Alana vagheggia il riscatto, ma un’ulteriore utopia di cui
diffidare. Non rimane che ritrovarsi sotto una sala che, guarda un
po’, proietta Live
and Let Die:
un “magico accordo” del destino ancorché bizzarro, la cui
scintilla scocca quando Gary si riverbera, all’inizio, nello
specchietto di lei (“Sono sempre stato qui… Sento che dovevo
incontrarti”). Il filo nascosto che nell’epilogo – forse per
l’ultima volta, forse no – li carpisce one
from the heart,
senza volersi smarrire, ubriachi d’amore; gioiosa, la corsa
continua prima che sia di nuovo tardi (“Domani potresti non esser
felice”, commenta il relativo brano di Taj Mahal). Esperimento
rinascimentale o vizio di forma? Di sicuro, nella rappresentazione
d’una cotta importante, Anderson è figura sufficientemente stabile
nel neo-umanesimo filmografico: solo chi è stato innamorato, o ha
avuto la propria scottatura, può comprendere perché la confezione
sia una chicca, semplice in tutta la sua potenza. Anderson è lì per
ricordarlo, nella fattispecie in tempi odierni in cui non lo si
ricorda mai abbastanza. Chi
vuol essere lieto, sia…
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