Lorre(alismo), lo sguardo dietro la maschera
Lorre(alismo),
lo sguardo dietro la maschera
“Lorre è la voce alta dentro di noi che ci fa capire di essere stati
strappati da ogni contesto, sviliti”
ELFRIEDE
JELINEK
La
precedente e forse anche unica retrospettiva dedicata a Peter Lorre –
all’anagrafe Ladislav
Löwenstein – risale
più o meno a trent’anni fa, nell’ambito della 13a
edizione
del
“Mystfest” di Cattolica, accompagnata da una ormai rara brochure
generosa di informazioni sull’attore ungherese d’origine ebraica.
A beneficio dei cinefili, la 36a
kermesse
de “Il Cinema Ritrovato” di Bologna ripete tale monografico
omaggio nel tentativo, storicamente delicato, di spiegare come
l’eclettica gamma di personaggi interpretati, perlopiù psicopatici
o villain,
non corrispondesse a quell’ingiusta etichetta che studios
statunitensi e parte della critica tendevano ad affibbiargli. Certo,
M
– Il mostro di Düsseldorf
è
l’ineludibile origine d’un più articolato percorso intriso di
sfumature, sottigliezze, accenti di cui Lorre avrebbe fornito
testimonianza anche in operazioni inconsuete, coraggiose quanto
sventurate, dato che l’accoglienza loro riservata risultava il
contrario dell’intento originale. Buon per noi che l’austriaco
storico del cinema Alexander Horwath – chiamato a introdurre L’uomo
perduto,
unica e per l’appunto infelice regia di Lorre – oculatamente
scelga tre annate tese a scandire altrettanti decenni, a partire dal
’31: la rivelazione nei panni di Hans Beckert (pluriomicida
pedofilo che nel celeberrimo soliloquio finale tuttora trasmette un
sentimento d’umana pietas)
spalanca
le porte della Settima Arte al protagonista, ancora legato al milieu
teatrale, per amore del quale rifiuta un più sicuro impiego in
banca, rompendo giovanissimo
con
legami familiari e convenzionalità quotidiana. Proprio la
celluloide, a differenza del palco, sembra la sfera in cui il
ventisettenne Peter individua la finestra sul mondo, concedendo corpo
e volto a più di settanta film, ancorché innegabile sia la
moltitudine tra horror, spy-story,
thriller, il cui principale interesse risiede semplicemente nella sua
partecipazione. Una fortuna e una dannazione, che Lorre pagherà in
prima persona tra dolenti introspezioni
e tormentate sensibilità, prestazioni sottostimate e progetti non
corrisposti; e se negli anni Trenta, s’aggiunga, la politique
attoriale non è ancora così accesa come lo diverrà nei lustri
successivi, anche la star non fa mistero di maturare giudizi (e più
tardi sincere convinzioni) nei confronti d’una realtà in costante
mutamento: il sodalizio col drammaturgo Brecht, seguito alle lodi di
quest’ultimo per l’appropriata performance
di Un
uomo è un uomo,
basterebbe a comprovarlo.
Viso
sinistro e infantile, timbro vocale al contempo suadente e languido,
l’effigie di Lorre fatica un bel po’ prima che l’inconfondibile
fisionomia da batrace esoftalmico, la bassa statura, la querula e
lagnosa vocetta, trovino una compiuta valorizzazione, anche se ruoli da divo – al pari d’un Bogart o d’un Price, coi quali
sovente condivide la scena – ne ottiene di rado, ambizione troppo
ardita e limitante per le proprie capacità. E quando accade, vedi
caso, le ragioni alimentari hanno la meglio sull’approfondimento
psicologico al di là della professionalità, rischiando, come mostra
la fortunata serie dell’investigatore giapponese Mr. Moto,
d’imprigionarlo nella gabbia (nemmeno troppo dorata) della
confezione di genere. La fortuna d’una rassegna compensa lo
spettatore dell’ingrata cernita tra i succulenti titoli in
cartellone, complici le repliche delle pellicole in programma, quasi
tutte in bobina – con l’unica eccezione de L’uomo
che sapeva troppo,
che può far leva, manco a dirlo, sul richiamo della firma registica.
Altrettanto inevitabile è l’inclusione d’un documentario
televisivo (Das
Doppelte Gesicht,
girato a quattro mani da Harun Farocki e Felix Hoffmann), atto a
gettare una luce significativa sugli alti e bassi professionali
dell’artista: pure, senza la necessità di incomodare un format
di pregio, reo di liquidare un po’ troppo sbrigativamente i sette
anni dell’attore alla Warner e l’ampio contributo al cinema
popolare anni Quaranta, emerge
parimenti
un ritratto amaro ed eloquente, la cui carriera nel prodotto d’autore
quasi cessa nell’istante in cui comincia, senza che si tenga conto,
dietro la duplice facciata, di un raffinato intellettuale amante
delle belle arti, provvisto della preparazione e souplesse
d’un completo professionista che gli consentono, con intelligenza,
di cambiare registro.
Analizzare
l’assortimento di cui è costituita la figura artistica di Lorre
implica rintracciarne ogni volta un tassello biografico, e il mosaico
compositivo che ne emerge fa il paio con una giovinezza turbolenta,
colma di lavori occasionali per finanziare la propria aspirazione,
prima di conoscere l’esistenza bohémienne
e, qualche anno dopo, debuttare a Zurigo recitando per sette anni a
Breslavia, Vienna e Berlino, in adattamenti da Galsworthy, Fleisser,
Büchner. È in quel periodo che, diciannovenne, s’inventa il noto
nome d’arte dietro suggerimento dell’inventore dello psicodramma,
Jacob Levy Moreno, sperimentando il trasformismo, che da semplice
strumento della filodrammatica perfezionerà man mano. Se le
produzioni conoscono restrizioni ai confini nazionali,
indipendentemente dai permessi di lavoro, per uno dei paradossali
casi in cui il successo non arride alla stella, né in Germania né
all’estero, il capo-attentatore Abbott – anima nera del
complotto, nel sopracitato film di Hitchcock – è un raffinato e
sottile binomio di cultura e malvagità,
che fa di Lorre uno tra i volti più richiesti in un genere di eterna
attualità. Un aspro antipasto, soprattutto, dell’incombente climax
di ansia e paura che obbliga il mondo a stare all’erta (d’origine
ebraica egli stesso, Lorre deve far fagotto seguendo la corrente di
molti colleghi mitteleuropei). Ma un discreto esordio nel lungo
esilio, che gli garantisce un contratto con la Columbia e una fortuna
rara per interpreti della medesima scuola; nondimeno, la
personificazione più amata, e fortemente voluta, si rivela la meno
corrisposta dal pubblico anche a causa della magra convinzione del
tycoon
Harry Cohn, che dispone d’un budget
irrisorio, di pochi interni spogli e un cast privo di nomi di punta.
Racconta Lorre su Ho
ucciso!:
“Josef Von Sternberg ha diretto il film con tocco da maestro. Speravo che le scene e i costumi non risultassero un po’ troppo esotici, siccome ritenevo che quella storia avrebbe potuto succedere a qualunque tipo di persona e in qualunque posto; quindi un’enfasi eccessiva sui costumi e le scene sarebbe risultata distraente. Dissi a Mr. Von Sternberg che speravo che gli spettatori rientrando a casa non avrebbero ritenuto che avvenimenti simili potessero succedere soltanto a dei russi vissuti all’epoca di Dostoevskij.”1
Giovanni Buttafava, nell’elencare gli innumerevoli difetti nell’esito, constata un clamoroso esempio di miscast reputando lo stesso divo “un handicap non da poco”2; se si eccettua un copione riduttivo, carente di autentici guizzi ambigui e tale da non suscitare stimoli, si tratta d’un fallimento d’eccezione “da imputare soprattutto alle preoccupazioni di rispetto della Cultura”3, rimpolpato da segmenti che conferiscono una possibilità di riscatto del materiale. A conti fatti, quel che dovrebbe costituire un trait d’union fra due prestigiose carriere dà l’impressione d’un solido mélo a tinte mai abbastanza fosche, che si limita ad anestetizzare i risvolti più estremi della pagina onde evitare noie con la censura. Tralasciando alcuni essenziali compromessi, senza ledere essenzialità o ramificazioni psicologiche, il Raskòl’nikov qui offerto persegue un accurato, predefinito progetto personale: in un inglese ancora incerto (ma distante dal fonetismo del cospiratore Abbott), l’attore si esalta al centro d’una trasposizione marcatamente teatrale-dialogica, conferendo sfumature emotive al timido sunto della maschera letteraria. Il pedinamento tra lo studente pervaso d’idee superomiste, desideroso di compiere il gesto utile, e l’ispettore di polizia Petrovič è condotto lungo una sapiente scacchiera, ove la zona grigia e morale tra le pulsioni violente dell’essere umano s’interseca con le convenzioni, non meno violente, della società; la posizione di chi si crede intoccabile, di fronte alla lezione etica dell’umiltà e dell’amore, frana lentamente sotto i piedi del personaggio (sino alla cosa giusta da fare) attraverso tracce disseminate, forse all’occorrenza, per indurre il reo a confessare e la legge a sbugiardarlo. Già campanello d’allarme premonitore del gangsterismo politico che conduce Hitler al potere, ciclico perdura il rapporto tra l’individuo trasformato in assassino e il Sistema che ne innesca l’ossessione omicida. Il disegno di Raskòl’nikov, da un lato, anticipa d’una buona decina d’anni quello degli studenti omosessuali di Nodo alla gola, e dall’altro, stando a Lorre, quasi replica il Beckert nel capolavoro di Lang, che scrive alla polizia lettere anonime incrementando le ricerche (da par suo il maestro, ispirato da articoli su episodi realmente accaduti e dalla spietata lucidità della tendenza artistica Neue Sachlichkeit, accentua lo spunto all’origine). E un parallelo, per altri motivi, si rintraccia nel bizzarro noir statunitense L’idolo cinese, co-sceneggiato da John Huston (che già lo aveva voluto ne Il mistero del falco) e co-interpretato dal corpulento Sydney Greenstreet, già al suo fianco nel medesimo film. Il Fato cinico e baro, riservato alla triade di complici ingolositi da un biglietto della lotteria, si mostra più tenero del consueto verso l’alcolista impersonato da Lorre, incarcerato per un crimine non commesso, che scampando per un soffio alla morte, e rimesso in libertà, rinuncia al bottino e opta per il piacere dell’onestà e dell’amore, timoroso che il feticcio perseveri nella sequela di sciagure.
“Josef Von Sternberg ha diretto il film con tocco da maestro. Speravo che le scene e i costumi non risultassero un po’ troppo esotici, siccome ritenevo che quella storia avrebbe potuto succedere a qualunque tipo di persona e in qualunque posto; quindi un’enfasi eccessiva sui costumi e le scene sarebbe risultata distraente. Dissi a Mr. Von Sternberg che speravo che gli spettatori rientrando a casa non avrebbero ritenuto che avvenimenti simili potessero succedere soltanto a dei russi vissuti all’epoca di Dostoevskij.”1
Giovanni Buttafava, nell’elencare gli innumerevoli difetti nell’esito, constata un clamoroso esempio di miscast reputando lo stesso divo “un handicap non da poco”2; se si eccettua un copione riduttivo, carente di autentici guizzi ambigui e tale da non suscitare stimoli, si tratta d’un fallimento d’eccezione “da imputare soprattutto alle preoccupazioni di rispetto della Cultura”3, rimpolpato da segmenti che conferiscono una possibilità di riscatto del materiale. A conti fatti, quel che dovrebbe costituire un trait d’union fra due prestigiose carriere dà l’impressione d’un solido mélo a tinte mai abbastanza fosche, che si limita ad anestetizzare i risvolti più estremi della pagina onde evitare noie con la censura. Tralasciando alcuni essenziali compromessi, senza ledere essenzialità o ramificazioni psicologiche, il Raskòl’nikov qui offerto persegue un accurato, predefinito progetto personale: in un inglese ancora incerto (ma distante dal fonetismo del cospiratore Abbott), l’attore si esalta al centro d’una trasposizione marcatamente teatrale-dialogica, conferendo sfumature emotive al timido sunto della maschera letteraria. Il pedinamento tra lo studente pervaso d’idee superomiste, desideroso di compiere il gesto utile, e l’ispettore di polizia Petrovič è condotto lungo una sapiente scacchiera, ove la zona grigia e morale tra le pulsioni violente dell’essere umano s’interseca con le convenzioni, non meno violente, della società; la posizione di chi si crede intoccabile, di fronte alla lezione etica dell’umiltà e dell’amore, frana lentamente sotto i piedi del personaggio (sino alla cosa giusta da fare) attraverso tracce disseminate, forse all’occorrenza, per indurre il reo a confessare e la legge a sbugiardarlo. Già campanello d’allarme premonitore del gangsterismo politico che conduce Hitler al potere, ciclico perdura il rapporto tra l’individuo trasformato in assassino e il Sistema che ne innesca l’ossessione omicida. Il disegno di Raskòl’nikov, da un lato, anticipa d’una buona decina d’anni quello degli studenti omosessuali di Nodo alla gola, e dall’altro, stando a Lorre, quasi replica il Beckert nel capolavoro di Lang, che scrive alla polizia lettere anonime incrementando le ricerche (da par suo il maestro, ispirato da articoli su episodi realmente accaduti e dalla spietata lucidità della tendenza artistica Neue Sachlichkeit, accentua lo spunto all’origine). E un parallelo, per altri motivi, si rintraccia nel bizzarro noir statunitense L’idolo cinese, co-sceneggiato da John Huston (che già lo aveva voluto ne Il mistero del falco) e co-interpretato dal corpulento Sydney Greenstreet, già al suo fianco nel medesimo film. Il Fato cinico e baro, riservato alla triade di complici ingolositi da un biglietto della lotteria, si mostra più tenero del consueto verso l’alcolista impersonato da Lorre, incarcerato per un crimine non commesso, che scampando per un soffio alla morte, e rimesso in libertà, rinuncia al bottino e opta per il piacere dell’onestà e dell’amore, timoroso che il feticcio perseveri nella sequela di sciagure.
Fare
della filmografia dell’interprete una specie di specchio
autobiografico, impone di tornare alla menzionata cronologia
decennale di Horwath – sua la rassegna intitolata Straniero
in terra straniera
– e capire quanto alcuni tratti fondamentali del lavoro di Lorre
risaltino, neanche troppo sottesi, ne L’uomo
dalla maschera:
una confezione di serie B ch’è calzante definizione, ancor più
geniale in originale, da leggersi quale ironico monito a
un’esperienza hollywoodiana scissa tra attese e delusioni, ove la
particolarità fisica priva della possibilità di condurre
un’esistenza normale. La deformazione, da carta vincente, si
tramuta in etichetta ingiusta pressoché collettiva.
“Un emigrante giunge alla meta dei suoi desideri. Tuttavia lì perde la faccia, la nuova patria gioca duro con lui. Deve prender quello che gli danno. Più tardi, quando le sue capacità vengono distorte e incanalate in una tipizzazione criminale, non può più tornare indietro. Accetta la maschera provvisoria, se la mette come se fosse il proprio viso deformato. Forse la maschera diventerà carne e il nuovo volto sarà migliore del primo. Ma egli non si libererà più di quel che doveva essere un ripiego momentaneo.”1
Hoffmann sigla osservando che quasi tutta la fabula gioca con la metà superiore del volto di Lorre, il che basta e avanza per sbarcare il lunario. Eppure fatalismo e angoscia, dubbia morale borghese e sfumature di sradicamento nel prototipo dell’immigrato (e non del rifugiato) s’insinuano, disinvolti, in una miscela di generi dove le ristrettezze di budget si traducono in stilemi, conservando una cifra originale e melanconica (“Possiamo sovrapporre questo ‘volto’ a quello di Kaspar Hauser – progetto sognato per tutta la vita e mai realizzato”, ipotizza Horwath, “e vederlo come un trovatello”). Come disaminare l’apologo di Robert Florey se non come una parabola tristemente sarcastica sull’avversa fortuna, camuffata da guscio protettivo, degli ometti beffati dalle circostanze? Potenziale Conte di Montecristo, orrendamente sfigurato in seguito a un terribile incendio, lo Szabó del film è temuto da tutti, senza lavoro né compagnia, e per campare si ritrova a indossare un facsimile elastico del viso color carne, organizzando una banda di piccoli delinquenti e capeggiandola con mente lucida e mani abili. Ancora una volta, è l’amore a suscitare una crisi di coscienza nel piccolo ex orologiaio, e per giunta il sentimento si rivolge a una ragazza cieca, graziosa e onesta com’era egli un tempo. E altrettanto sfortunata (muore in un’esplosione a lui destinata dai propri sgherri). Se la conclusione, corredata di vendetta catartica, ribadisce l’archetipo à la Dumas col supplemento d’un suicidio, pure il breve rapporto tra i protagonisti pare un calco dei ménage coniugali di Lorre, forniti di villetta, giardino, automobile, cane da guardia, e non meno sfociati in separazioni o divorzi. Né è azzardato ripensare alla fioraia di matrice chapliniana – e il creatore di Charlot non fa mistero di considerare Peter “il più grande attore vivente” – mentre il finale in un deserto senza scampo riporta alla Death Valley dell’amico Von Stroheim che, nel ’40, fa coppia col Nostro nel rifacimento d’una pellicola francese: I Was an Adventuress preserva e valorizza l’arguzia delle messinscene di Weimar e dell’esilio dalla Francia in quella che, per altri versi, è essenzialmente un reboot hollywoodiano della Vecchia Europa. A dispetto delle patetiche partecipazioni in età avanzata, perlopiù parodie del passato, qui il brillante istrionismo di Lorre è sapientemente impiegato in una non semplice gara di bravura, attenta a non azzerare un’innata propensione verso il sentimentalismo (“Credo di essere un caso patologico. Sono un debole. Come tutta la mia famiglia”).
“Un emigrante giunge alla meta dei suoi desideri. Tuttavia lì perde la faccia, la nuova patria gioca duro con lui. Deve prender quello che gli danno. Più tardi, quando le sue capacità vengono distorte e incanalate in una tipizzazione criminale, non può più tornare indietro. Accetta la maschera provvisoria, se la mette come se fosse il proprio viso deformato. Forse la maschera diventerà carne e il nuovo volto sarà migliore del primo. Ma egli non si libererà più di quel che doveva essere un ripiego momentaneo.”1
Hoffmann sigla osservando che quasi tutta la fabula gioca con la metà superiore del volto di Lorre, il che basta e avanza per sbarcare il lunario. Eppure fatalismo e angoscia, dubbia morale borghese e sfumature di sradicamento nel prototipo dell’immigrato (e non del rifugiato) s’insinuano, disinvolti, in una miscela di generi dove le ristrettezze di budget si traducono in stilemi, conservando una cifra originale e melanconica (“Possiamo sovrapporre questo ‘volto’ a quello di Kaspar Hauser – progetto sognato per tutta la vita e mai realizzato”, ipotizza Horwath, “e vederlo come un trovatello”). Come disaminare l’apologo di Robert Florey se non come una parabola tristemente sarcastica sull’avversa fortuna, camuffata da guscio protettivo, degli ometti beffati dalle circostanze? Potenziale Conte di Montecristo, orrendamente sfigurato in seguito a un terribile incendio, lo Szabó del film è temuto da tutti, senza lavoro né compagnia, e per campare si ritrova a indossare un facsimile elastico del viso color carne, organizzando una banda di piccoli delinquenti e capeggiandola con mente lucida e mani abili. Ancora una volta, è l’amore a suscitare una crisi di coscienza nel piccolo ex orologiaio, e per giunta il sentimento si rivolge a una ragazza cieca, graziosa e onesta com’era egli un tempo. E altrettanto sfortunata (muore in un’esplosione a lui destinata dai propri sgherri). Se la conclusione, corredata di vendetta catartica, ribadisce l’archetipo à la Dumas col supplemento d’un suicidio, pure il breve rapporto tra i protagonisti pare un calco dei ménage coniugali di Lorre, forniti di villetta, giardino, automobile, cane da guardia, e non meno sfociati in separazioni o divorzi. Né è azzardato ripensare alla fioraia di matrice chapliniana – e il creatore di Charlot non fa mistero di considerare Peter “il più grande attore vivente” – mentre il finale in un deserto senza scampo riporta alla Death Valley dell’amico Von Stroheim che, nel ’40, fa coppia col Nostro nel rifacimento d’una pellicola francese: I Was an Adventuress preserva e valorizza l’arguzia delle messinscene di Weimar e dell’esilio dalla Francia in quella che, per altri versi, è essenzialmente un reboot hollywoodiano della Vecchia Europa. A dispetto delle patetiche partecipazioni in età avanzata, perlopiù parodie del passato, qui il brillante istrionismo di Lorre è sapientemente impiegato in una non semplice gara di bravura, attenta a non azzerare un’innata propensione verso il sentimentalismo (“Credo di essere un caso patologico. Sono un debole. Come tutta la mia famiglia”).
Peccato
che il Lorre maggiormente richiesto coincida con le incursioni
nell’horror gotico: ecco che Florey gli regala un ulteriore villain
nell’ultimo titolo per la Warner, Il
mistero delle cinque dita,
elogiato dalla critica ma inchiodato in un milieu
senza le cui ombre e chiaroscuri è impensabile evadere o esser
corrisposti. Anche perché il sinistro segretario Cummins, esperto di
occultismo, per buona parte è debitore del più famoso dottor Gogol
di Amore
folle,
altro innamorato non corrisposto che, responsabile del trapianto di
mani d’un omicida su un pianista, inutilmente spera di conquistare
le attenzioni della di lui moglie. Nel Florey di dieci anni dopo, una
mano ambulante strangola Lorre vendicandosi come un mai sopito
spettro (invero l’autore dell’idea, Buñuel, non può far causa
alla major
che gliela sottrae senza riconoscimenti né compensi).5
E il passato che ritorna è fulcro dell’esperimento più ambizioso
e malavventurato: con
L’uomo perduto,
suggerisce Horwath, si chiude il trittico cronologico, estrema tappa
d’un percorso ove l’ascesa del nazismo, quale riverbero
all’inverso, cede il passo a un inarrestabile declino. Il ritorno
in Germania dopo diciott’anni di esilio all’estero sterza verso
la (psic)analisi della coscienza d’un Paese, il cui motore-chiave è
un verlorene
dentro e fuori l’artificio, indotto a rimirare un luogo e una
realtà non propri, che opta per un mosaico volutamente avviluppato e
trasversale: quasi fosse l’unicum
d’una prospettiva interna alla (sconfitta della) patria, eppur
estranea al problema. Un’estrema contaminazione di generi e
assunti, dallo spionistico al thriller, ch’è sostanzialmente un
dialogo a due voci in dichiarato squilibrio sulla contrapposizione
tra uno scienziato – con un trascorso da killer – e l’assistente
– ex spia del Partito – in un campo di rifugiati ed ex internati,
concepito a mezza strada tra lo psicodramma e il report
documentaristico (l’autore, dichiara una didascalia in apertura,
s’ispira a una pagina di cronaca avvenuta ad Amburgo).
Un
fedele ritratto della verità che resuscita il “Lorrealismo”,
così genialmente definito da qualcuno, stimolato dalla caterva di
impulsi e idee creative soffocatigli dalla Hollywood finta culla,
lungo una struttura fedele alla miglior tradizione del cinema bellico
d’anteguerra, nonché alla sovrapposizione di realismo ed
espressionismo che avevano caratterizzato
M.
Sicché il film è un noir
sociale che, tracciando il diagramma psichico di un criminale, indaga
sull’ambiguità morale seguita alla fine del “Dodicennio nero”
e le etiche conseguenze lasciate in eredità dal regime di Hitler
(peraltro mai menzionato) alla coscienza dei superstiti. Un’opera
prima e unica antesignana d’una cinematografia impegnata
nell’elaborazione del passato, destinata a restare quasi appartata
nella produzione tedesca dell’epoca votata totalmente, o quasi,
all’intrattenimento puro e semplice. Soprattutto un prodotto sulla
morte e l’ossessione di essa, contestualizzata entro la diabolica
macchina della guerra e del nazismo, che, a due anni dalla cessazione
del conflitto, fa della personalità-cardine il frantumato esito d’un
tragitto che attraversa modernismo e fascismi europei,
tossicodipendenza ed esilio, cultura della fama e del denaro, su cui
si riflettono volti e maschere del periodo. Un perduto,
appunto, coerente con sé stesso perfino in un piglio recitativo di
disarmante contenutismo, basato sull’aderenza fisica e psicologica,
a sua volta appesantita dall’età e segnata dagli umori, coniugata
a una proverbiale improvvisazione. Non sorprende che nell’anatomia
d’un assassino obbligato a tener testa a un intero popolo di
assassini, e a confrontarcisi in un plot
di fine intellettualismo, s’insinui Shakespeare, avendo il dottor
Rothe attinenze con Otello (e un Lorre ancora ignaro dell’insuccesso
accarezza un Macbeth ambientato nella Germania contemporanea). Lì è
però l’incedere degli eventi a piombare sull’apolitico
scienziato, determinando uno stato di totale confusione. All’impulso
di uccidere non seguono accuse: è il potere di Stato a prevaricare
l’essere umano, sottraendogli i pochi giorni rimasti, e il destino
a reclamare il dovuto. Non ci si sottrae al trascorso, né interessa
la sensazione di disfatta sulla liberazione: l’unica via è
l’estremo gesto. “Non esistono più affari privati, e anche
morire non è cosa privata”.6
In
un ritaglio, tra gli enumerabili di cui la pellicola dispone, si
carpisce come la cinetica attoriale sia tutt’uno con uno spirito
apolitico e tormentato, destinato a non trovar collocazione: non
potendo più parlare all’interlocutore – cui ha sparato, tanto
incolmabile è la distanza – il protagonista getta addosso al
cadavere la pistola e un pacchetto di sigarette, non prima di averne
estratta una. Oggetti destinati a esser seppelliti col morto, come le
cose che in vita permettono di esercitare il potere. Quelle della
realtà esteriore parlano da sé. E il progetto di un’esistenza si
cinge nell’identica incomprensione con cui l’arte di Peter Lorre,
nel solco più intimo, è solitamente accolta: illuminato
da uno splendido bianco e nero, L’uomo
perduto
è un oggetto isolato, a lungo invisibile, destinato a deprimere la
vena creativa del cineasta sino a demotivarla. Senza più voce in
capitolo, il Nostro campa con generose ospitate in confezioni a basso
costo, anacronistici cameo
d’una produzione ormai tramontata: il mistero del Lorre tangibile,
tuttora, resta tale a quasi sessant’anni dalla scomparsa. Un
enigma, come la Valigia
di Mr. O.F. nell’omonima
satira musicale del ’31, in cui veste i panni del redattore Stix:
divertimento senza pensieri frutto di un’epoca lontana mille
miglia, ora restituito nel proprio contrario. “Chi
può sapere come sono fatto dentro?”, secondo una sua celebre
battuta. E nel rispondere, magari, non si può che prenderlo in
parola quando, diabolico, accetta il rimprovero del canagliesco Von
Stroheim, truffatore come lui: “Senza di me saresti perso in questo
mondo sofisticato di uomini scaltri e donne intelligenti”. E Peter:
“Sì, sono solo un bimbo nel bosco”.
Francesco Saverio Marzaduri
1 HOFFMANN, Felix, YOUNGKIN, Stephen D., Peter Lorre, Rimini,
Mystfest, 1992. Pag. 41.
2
BUTTAFAVA, Giovanni, Josef
Von Sternberg,
Firenze, La Nuova Italia, 1976. Pag. 63.
3
Idem.
4
HOFFMANN, YOUNGKIN, cit. pag. 35.
5
Oltre a ritrovarsi nel dittico de
La famiglia Addams,
l’escamotage
della mano mozzata assassina sarebbe stato utilizzato nel secondo
lungometraggio di Oliver Stone, appunto intitolato La
mano.
6
HOFFMANN, YOUNGKIN, cit. pag. 39.
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