Lorre(alismo), lo sguardo dietro la maschera

Lorre(alismo), lo sguardo dietro la maschera 


“Lorre 
è la voce alta dentro di noi che ci fa capire di essere stati strappati da ogni contesto, sviliti” 
ELFRIEDE JELINEK 


La precedente e forse anche unica retrospettiva dedicata a Peter Lorre – all’anagrafe Ladislav Löwenstein – risale più o meno a trent’anni fa, nell’ambito della 13a edizione del “Mystfest” di Cattolica, accompagnata da una ormai rara brochure generosa di informazioni sull’attore ungherese d’origine ebraica. A beneficio dei cinefili, la 36a kermesse de “Il Cinema Ritrovato” di Bologna ripete tale monografico omaggio nel tentativo, storicamente delicato, di spiegare come l’eclettica gamma di personaggi interpretati, perlopiù psicopatici o villain, non corrispondesse a quell’ingiusta etichetta che studios statunitensi e parte della critica tendevano ad affibbiargli. Certo, M – Il mostro di Düsseldorf è l’ineludibile origine d’un più articolato percorso intriso di sfumature, sottigliezze, accenti di cui Lorre avrebbe fornito testimonianza anche in operazioni inconsuete, coraggiose quanto sventurate, dato che l’accoglienza loro riservata risultava il contrario dell’intento originale. Buon per noi che l’austriaco storico del cinema Alexander Horwath – chiamato a introdurre L’uomo perduto, unica e per l’appunto infelice regia di Lorre – oculatamente scelga tre annate tese a scandire altrettanti decenni, a partire dal ’31: la rivelazione nei panni di Hans Beckert (pluriomicida pedofilo che nel celeberrimo soliloquio finale tuttora trasmette un sentimento d’umana pietas) spalanca le porte della Settima Arte al protagonista, ancora legato al milieu teatrale, per amore del quale rifiuta un più sicuro impiego in banca, rompendo giovanissimo con legami familiari e convenzionalità quotidiana. Proprio la celluloide, a differenza del palco, sembra la sfera in cui il ventisettenne Peter individua la finestra sul mondo, concedendo corpo e volto a più di settanta film, ancorché innegabile sia la moltitudine tra horror, spy-story, thriller, il cui principale interesse risiede semplicemente nella sua partecipazione. Una fortuna e una dannazione, che Lorre pagherà in prima persona tra dolenti introspezioni e tormentate sensibilità, prestazioni sottostimate e progetti non corrisposti; e se negli anni Trenta, s’aggiunga, la politique attoriale non è ancora così accesa come lo diverrà nei lustri successivi, anche la star non fa mistero di maturare giudizi (e più tardi sincere convinzioni) nei confronti d’una realtà in costante mutamento: il sodalizio col drammaturgo Brecht, seguito alle lodi di quest’ultimo per l’appropriata performance di Un uomo è un uomo, basterebbe a comprovarlo. 
Viso sinistro e infantile, timbro vocale al contempo suadente e languido, l’effigie di Lorre fatica un bel po’ prima che l’inconfondibile fisionomia da batrace esoftalmico, la bassa statura, la querula e lagnosa vocetta, trovino una compiuta valorizzazione, anche se ruoli da divo – al pari d’un Bogart o d’un Price, coi quali sovente condivide la scena – ne ottiene di rado, ambizione troppo ardita e limitante per le proprie capacità. E quando accade, vedi caso, le ragioni alimentari hanno la meglio sull’approfondimento psicologico al di là della professionalità, rischiando, come mostra la fortunata serie dell’investigatore giapponese Mr. Moto, d’imprigionarlo nella gabbia (nemmeno troppo dorata) della confezione di genere. La fortuna d’una rassegna compensa lo spettatore dell’ingrata cernita tra i succulenti titoli in cartellone, complici le repliche delle pellicole in programma, quasi tutte in bobina – con l’unica eccezione de L’uomo che sapeva troppo, che può far leva, manco a dirlo, sul richiamo della firma registica. Altrettanto inevitabile è l’inclusione d’un documentario televisivo (Das Doppelte Gesicht, girato a quattro mani da Harun Farocki e Felix Hoffmann), atto a gettare una luce significativa sugli alti e bassi professionali dell’artista: pure, senza la necessità di incomodare un format di pregio, reo di liquidare un po’ troppo sbrigativamente i sette anni dell’attore alla Warner e l’ampio contributo al cinema popolare anni Quaranta, emerge parimenti un ritratto amaro ed eloquente, la cui carriera nel prodotto d’autore quasi cessa nell’istante in cui comincia, senza che si tenga conto, dietro la duplice facciata, di un raffinato intellettuale amante delle belle arti, provvisto della preparazione e souplesse d’un completo professionista che gli consentono, con intelligenza, di cambiare registro. 
Analizzare l’assortimento di cui è costituita la figura artistica di Lorre implica rintracciarne ogni volta un tassello biografico, e il mosaico compositivo che ne emerge fa il paio con una giovinezza turbolenta, colma di lavori occasionali per finanziare la propria aspirazione, prima di conoscere l’esistenza bohémienne e, qualche anno dopo, debuttare a Zurigo recitando per sette anni a Breslavia, Vienna e Berlino, in adattamenti da Galsworthy, Fleisser, Büchner. È in quel periodo che, diciannovenne, s’inventa il noto nome d’arte dietro suggerimento dell’inventore dello psicodramma, Jacob Levy Moreno, sperimentando il trasformismo, che da semplice strumento della filodrammatica perfezionerà man mano. Se le produzioni conoscono restrizioni ai confini nazionali, indipendentemente dai permessi di lavoro, per uno dei paradossali casi in cui il successo non arride alla stella, né in Germania né all’estero, il capo-attentatore Abbott – anima nera del complotto, nel sopracitato film di Hitchcock – è un raffinato e sottile binomio di cultura e malvagità, che fa di Lorre uno tra i volti più richiesti in un genere di eterna attualità. Un aspro antipasto, soprattutto, dell’incombente climax di ansia e paura che obbliga il mondo a stare all’erta (d’origine ebraica egli stesso, Lorre deve far fagotto seguendo la corrente di molti colleghi mitteleuropei). Ma un discreto esordio nel lungo esilio, che gli garantisce un contratto con la Columbia e una fortuna rara per interpreti della medesima scuola; nondimeno, la personificazione più amata, e fortemente voluta, si rivela la meno corrisposta dal pubblico anche a causa della magra convinzione del tycoon Harry Cohn, che dispone d’un budget irrisorio, di pochi interni spogli e un cast privo di nomi di punta. Racconta Lorre su Ho ucciso!

Josef Von Sternberg ha diretto il film con tocco da maestro. Speravo che le scene e i costumi non risultassero un po’ troppo esotici, siccome ritenevo che quella storia avrebbe potuto succedere a qualunque tipo di persona e in qualunque posto; quindi un’enfasi eccessiva sui costumi e le scene sarebbe risultata distraente. Dissi a Mr. Von Sternberg che speravo che gli spettatori rientrando a casa non avrebbero ritenuto che avvenimenti simili potessero succedere soltanto a dei russi vissuti all’epoca di
Dostoevskij.1 

Giovanni Buttafava, nell’elencare gli innumerevoli difetti nell’esito, constata un clamoroso esempio di
miscast reputando lo stesso divo “un handicap non da poco”2; se si eccettua un copione riduttivo, carente di autentici guizzi ambigui e tale da non suscitare stimoli, si tratta d’un fallimento d’eccezione “da imputare soprattutto alle preoccupazioni di rispetto della Cultura”3, rimpolpato da segmenti che conferiscono una possibilità di riscatto del materiale. A conti fatti, quel che dovrebbe costituire un trait d’union fra due prestigiose carriere dà l’impressione d’un solido mélo a tinte mai abbastanza fosche, che si limita ad anestetizzare i risvolti più estremi della pagina onde evitare noie con la censura. Tralasciando alcuni essenziali compromessi, senza ledere essenzialità o ramificazioni psicologiche, il Raskòl’nikov qui offerto persegue un accurato, predefinito progetto personale: in un inglese ancora incerto (ma distante dal fonetismo del cospiratore Abbott), l’attore si esalta al centro d’una trasposizione marcatamente teatrale-dialogica, conferendo sfumature emotive al timido sunto della maschera letteraria. Il pedinamento tra lo studente pervaso d’idee superomiste, desideroso di compiere il gesto utile, e l’ispettore di polizia Petrovič è condotto lungo una sapiente scacchiera, ove la zona grigia e morale tra le pulsioni violente dell’essere umano s’interseca con le convenzioni, non meno violente, della società; la posizione di chi si crede intoccabile, di fronte alla lezione etica dell’umiltà e dell’amore, frana lentamente sotto i piedi del personaggio (sino alla cosa giusta da fare) attraverso tracce disseminate, forse all’occorrenza, per indurre il reo a confessare e la legge a sbugiardarlo. Già campanello d’allarme premonitore del gangsterismo politico che conduce Hitler al potere, ciclico perdura il rapporto tra l’individuo trasformato in assassino e il Sistema che ne innesca l’ossessione omicida. Il disegno di Raskòl’nikov, da un lato, anticipa d’una buona decina d’anni quello degli studenti omosessuali di Nodo alla gola, e dall’altro, stando a Lorre, quasi replica il Beckert nel capolavoro di Lang, che scrive alla polizia lettere anonime incrementando le ricerche (da par suo il maestro, ispirato da articoli su episodi realmente accaduti e dalla spietata lucidità della tendenza artistica Neue Sachlichkeit, accentua lo spunto all’origine). E un parallelo, per altri motivi, si rintraccia nel bizzarro noir statunitense L’idolo cinese, co-sceneggiato da John Huston (che già lo aveva voluto ne Il mistero del falco) e co-interpretato dal corpulento Sydney Greenstreet, già al suo fianco nel medesimo film. Il Fato cinico e baro, riservato alla triade di complici ingolositi da un biglietto della lotteria, si mostra più tenero del consueto verso l’alcolista impersonato da Lorre, incarcerato per un crimine non commesso, che scampando per un soffio alla morte, e rimesso in libertà, rinuncia al bottino e opta per il piacere dell’onestà e dell’amore, timoroso che il feticcio perseveri nella sequela di sciagure. 
Fare della filmografia dell’interprete una specie di specchio autobiografico, impone di tornare alla menzionata cronologia decennale di Horwath – sua la rassegna intitolata Straniero in terra straniera – e capire quanto alcuni tratti fondamentali del lavoro di Lorre risaltino, neanche troppo sottesi, ne L’uomo dalla maschera: una confezione di serie B ch’è calzante definizione, ancor più geniale in originale, da leggersi quale ironico monito a un’esperienza hollywoodiana scissa tra attese e delusioni, ove la particolarità fisica priva della possibilità di condurre un’esistenza normale. La deformazione, da carta vincente, si tramuta in etichetta ingiusta pressoché collettiva. 

Un emigrante giunge alla meta dei suoi desideri. Tuttavia lì perde la faccia, la nuova patria gioca duro con lui. Deve prender quello che gli danno. Più tardi, quando le sue capacità vengono distorte e incanalate in una tipizzazione criminale, non può più tornare indietro. Accetta la maschera provvisoria, se la mette come se fosse il proprio viso deformato. Forse la maschera diventerà carne e il nuovo volto sarà migliore del primo. Ma egli non si libererà più di quel che doveva essere un ripiego momentaneo.”1 

Hoffmann sigla osservando che quasi tutta la
fabula gioca con la metà superiore del volto di Lorre, il che basta e avanza per sbarcare il lunario. Eppure fatalismo e angoscia, dubbia morale borghese e sfumature di sradicamento nel prototipo dell’immigrato (e non del rifugiato) s’insinuano, disinvolti, in una miscela di generi dove le ristrettezze di budget si traducono in stilemi, conservando una cifra originale e melanconica (“Possiamo sovrapporre questo ‘volto’ a quello di Kaspar Hauser – progetto sognato per tutta la vita e mai realizzato”, ipotizza Horwath, “e vederlo come un trovatello”). Come disaminare l’apologo di Robert Florey se non come una parabola tristemente sarcastica sull’avversa fortuna, camuffata da guscio protettivo, degli ometti beffati dalle circostanze? Potenziale Conte di Montecristo, orrendamente sfigurato in seguito a un terribile incendio, lo Szabó del film è temuto da tutti, senza lavoro né compagnia, e per campare si ritrova a indossare un facsimile elastico del viso color carne, organizzando una banda di piccoli delinquenti e capeggiandola con mente lucida e mani abili. Ancora una volta, è l’amore a suscitare una crisi di coscienza nel piccolo ex orologiaio, e per giunta il sentimento si rivolge a una ragazza cieca, graziosa e onesta com’era egli un tempo. E altrettanto sfortunata (muore in un’esplosione a lui destinata dai propri sgherri). Se la conclusione, corredata di vendetta catartica, ribadisce l’archetipo à la Dumas col supplemento d’un suicidio, pure il breve rapporto tra i protagonisti pare un calco dei ménage coniugali di Lorre, forniti di villetta, giardino, automobile, cane da guardia, e non meno sfociati in separazioni o divorzi. Né è azzardato ripensare alla fioraia di matrice chapliniana – e il creatore di Charlot non fa mistero di considerare Peter “il più grande attore vivente” – mentre il finale in un deserto senza scampo riporta alla Death Valley dell’amico Von Stroheim che, nel ’40, fa coppia col Nostro nel rifacimento d’una pellicola francese: I Was an Adventuress preserva e valorizza l’arguzia delle messinscene di Weimar e dell’esilio dalla Francia in quella che, per altri versi, è essenzialmente un reboot hollywoodiano della Vecchia Europa. A dispetto delle patetiche partecipazioni in età avanzata, perlopiù parodie del passato, qui il brillante istrionismo di Lorre è sapientemente impiegato in una non semplice gara di bravura, attenta a non azzerare un’innata propensione verso il sentimentalismo (“Credo di essere un caso patologico. Sono un debole. Come tutta la mia famiglia”). 
Peccato che il Lorre maggiormente richiesto coincida con le incursioni nell’horror gotico: ecco che Florey gli regala un ulteriore villain nell’ultimo titolo per la Warner, Il mistero delle cinque dita, elogiato dalla critica ma inchiodato in un milieu senza le cui ombre e chiaroscuri è impensabile evadere o esser corrisposti. Anche perché il sinistro segretario Cummins, esperto di occultismo, per buona parte è debitore del più famoso dottor Gogol di Amore folle, altro innamorato non corrisposto che, responsabile del trapianto di mani d’un omicida su un pianista, inutilmente spera di conquistare le attenzioni della di lui moglie. Nel Florey di dieci anni dopo, una mano ambulante strangola Lorre vendicandosi come un mai sopito spettro (invero l’autore dell’idea, Buñuel, non può far causa alla major che gliela sottrae senza riconoscimenti né compensi).5 E il passato che ritorna è fulcro dell’esperimento più ambizioso e malavventurato: con L’uomo perduto, suggerisce Horwath, si chiude il trittico cronologico, estrema tappa d’un percorso ove l’ascesa del nazismo, quale riverbero all’inverso, cede il passo a un inarrestabile declino. Il ritorno in Germania dopo diciott’anni di esilio all’estero sterza verso la (psic)analisi della coscienza d’un Paese, il cui motore-chiave è un verlorene dentro e fuori l’artificio, indotto a rimirare un luogo e una realtà non propri, che opta per un mosaico volutamente avviluppato e trasversale: quasi fosse l’unicum d’una prospettiva interna alla (sconfitta della) patria, eppur estranea al problema. Un’estrema contaminazione di generi e assunti, dallo spionistico al thriller, ch’è sostanzialmente un dialogo a due voci in dichiarato squilibrio sulla contrapposizione tra uno scienziato – con un trascorso da killer – e l’assistente – ex spia del Partito – in un campo di rifugiati ed ex internati, concepito a mezza strada tra lo psicodramma e il report documentaristico (l’autore, dichiara una didascalia in apertura, s’ispira a una pagina di cronaca avvenuta ad Amburgo). 
Un fedele ritratto della verità che resuscita il “Lorrealismo”, così genialmente definito da qualcuno, stimolato dalla caterva di impulsi e idee creative soffocatigli dalla Hollywood finta culla, lungo una struttura fedele alla miglior tradizione del cinema bellico d’anteguerra, nonché alla sovrapposizione di realismo ed espressionismo che avevano caratterizzato M. Sicché il film è un noir sociale che, tracciando il diagramma psichico di un criminale, indaga sull’ambiguità morale seguita alla fine del “Dodicennio nero” e le etiche conseguenze lasciate in eredità dal regime di Hitler (peraltro mai menzionato) alla coscienza dei superstiti. Un’opera prima e unica antesignana d’una cinematografia impegnata nell’elaborazione del passato, destinata a restare quasi appartata nella produzione tedesca dell’epoca votata totalmente, o quasi, all’intrattenimento puro e semplice. Soprattutto un prodotto sulla morte e l’ossessione di essa, contestualizzata entro la diabolica macchina della guerra e del nazismo, che, a due anni dalla cessazione del conflitto, fa della personalità-cardine il frantumato esito d’un tragitto che attraversa modernismo e fascismi europei, tossicodipendenza ed esilio, cultura della fama e del denaro, su cui si riflettono volti e maschere del periodo. Un perduto, appunto, coerente con sé stesso perfino in un piglio recitativo di disarmante contenutismo, basato sull’aderenza fisica e psicologica, a sua volta appesantita dall’età e segnata dagli umori, coniugata a una proverbiale improvvisazione. Non sorprende che nell’anatomia d’un assassino obbligato a tener testa a un intero popolo di assassini, e a confrontarcisi in un plot di fine intellettualismo, s’insinui Shakespeare, avendo il dottor Rothe attinenze con Otello (e un Lorre ancora ignaro dell’insuccesso accarezza un Macbeth ambientato nella Germania contemporanea). Lì è però l’incedere degli eventi a piombare sull’apolitico scienziato, determinando uno stato di totale confusione. All’impulso di uccidere non seguono accuse: è il potere di Stato a prevaricare l’essere umano, sottraendogli i pochi giorni rimasti, e il destino a reclamare il dovuto. Non ci si sottrae al trascorso, né interessa la sensazione di disfatta sulla liberazione: l’unica via è l’estremo gesto. “Non esistono più affari privati, e anche morire non è cosa privata”.6 
In un ritaglio, tra gli enumerabili di cui la pellicola dispone, si carpisce come la cinetica attoriale sia tutt’uno con uno spirito apolitico e tormentato, destinato a non trovar collocazione: non potendo più parlare all’interlocutore – cui ha sparato, tanto incolmabile è la distanza – il protagonista getta addosso al cadavere la pistola e un pacchetto di sigarette, non prima di averne estratta una. Oggetti destinati a esser seppelliti col morto, come le cose che in vita permettono di esercitare il potere. Quelle della realtà esteriore parlano da sé. E il progetto di un’esistenza si cinge nell’identica incomprensione con cui l’arte di Peter Lorre, nel solco più intimo, è solitamente accolta: illuminato da uno splendido bianco e nero, L’uomo perduto è un oggetto isolato, a lungo invisibile, destinato a deprimere la vena creativa del cineasta sino a demotivarla. Senza più voce in capitolo, il Nostro campa con generose ospitate in confezioni a basso costo, anacronistici cameo d’una produzione ormai tramontata: il mistero del Lorre tangibile, tuttora, resta tale a quasi sessant’anni dalla scomparsa. Un enigma, come la Valigia di Mr. O.F. nell’omonima satira musicale del 31, in cui veste i panni del redattore Stix: divertimento senza pensieri frutto di un’epoca lontana mille miglia, ora restituito nel proprio contrario. “Chi può sapere come sono fatto dentro?”, secondo una sua celebre battuta. E nel rispondere, magari, non si può che prenderlo in parola quando, diabolico, accetta il rimprovero del canagliesco Von Stroheim, truffatore come lui: “Senza di me saresti perso in questo mondo sofisticato di uomini scaltri e donne intelligenti”. E Peter: “Sì, sono solo un bimbo nel bosco”. 

Francesco Saverio Marzaduri 


1 HOFFMANN, Felix, YOUNGKIN, Stephen D., Peter Lorre, Rimini, Mystfest, 1992. Pag. 41. 
2 BUTTAFAVA, Giovanni, Josef Von Sternberg, Firenze, La Nuova Italia, 1976. Pag. 63. 
3 Idem. 
4 HOFFMANN, YOUNGKIN, cit. pag. 35. 
5 Oltre a ritrovarsi nel dittico de La famiglia Addams, l’escamotage della mano mozzata assassina sarebbe stato utilizzato nel secondo lungometraggio di Oliver Stone, appunto intitolato La mano
6 HOFFMANN, YOUNGKIN, cit. pag. 39. 

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