Anatomia di un “body double”: GIALLO

Anatomia di un body double: Giallo 


Di Giallo, diciottesima fatica cinematografica di Argento è certo più nota l’ultima fase della gestazione che l’esito che riguarda poi, soprattutto, la distribuzione sugli schermi. L’aspetto immediatamente più curioso dell’esperimento, ragione prima del progetto, sta nella scommessa di proseguire il proprio percorso, si sa di che tipo, a mo’ di confezione televisiva postmoderna studiata per un pubblico new age. Non ci si contenta più di sangue e delitti: occorre azzardare esplorando, adottando a paradigma una figura di neo-paladino simile al Dexter dell’omonima serie, metodico tecnico forense della polizia scientifica, e serial killer animato da missione salvifica contro criminali sfuggiti alla giustizia. Coefficiente bastevole a testimoniare come il collaudato topos della doppiezza, portato avanti dalla narrativa, non cessi di fungere da innesco per prodotti ove la riproposta, in linea con la sperimentazione, acquista rilevanza nella disamina teorica prima che nel compimento. Corrispettivo dell’identità sottratta, nel corredo di proiezioni e identificazioni, il concetto freudiano di doppio prende vita quale esercizio di follia presso menti contorte, senza disperdere l’effetto perturbante nella speculare facciata della legge. Applicando la distinzione doppelgänger/alter ego, che implica quella proiezione-apparizione, in Giallo il bizzarro intrico è marcato da prototipi difformi nelle rispettive caratteristiche, complementari tanto da esser l’uno il surrogato identificativo dell’altro. sorprende che l’operazione sia finanziata da americani (un paio di firme statunitensi collaborano allo script), poi addirittura sottratta e manipolata
A prescindere dall’interprete Adrien Brody, che il disegno del mostro restituisce dietro un trucco esageratamente grottesco (e uno pseudonimo rétro ne anagramma il nome), il film è la favola duna comune solitudine, complice la carenza di affetti domestici, ove il trauma d’infanzia ereditato da Profondo rosso, con tanto di coltellaccio insanguinato, miscela la misoginia cara ad Argento con l’inclusione del guscio materno. Figure parimenti emarginate, l’ispettore Enzo Avolfi e la sua dark (in)side, Flavio Volpe, vivono e operano in spazi claustrofobici: tane buie e lontane dal grigio degli esterni, che entrambi preservano con parossistica gelosia – il primo nel seminterrato d’una questura, il secondo in un sotterraneo – da cui indotti a uscire attraverso l’icona di Emmanuelle Seigner. Costei simboleggia ambivalente il perduto legame protettivo, cordone ombelicale imposto all’ombroso (e riluttante) poliziotto e concesso all’omicida, assurto a estremo contatto con la sorella da lui rapita e seviziata. Condensando l’importanza della colpa, che un personaggio patisce ed espia mediante un’effigie vendicatrice, il protagonista bambino ammazza il matricida così come, adulto, fa altrettanto con la metà oscura, a sua volta scottata da derisioni infantili; viceversa, accentuata da diffidenza e apatia, l’alienazione di Avolfi introietta la presenza di Volpe sin troppo esibita dal make-up di Sergio Stivaletti – riportando l’imperitura lotta Bene-Male su un’ambigua unilateralità, priva di nessi familiari (“Sei come lui… Sei un egoista!”, strilla Linda al mesto ispettore, che sallontana dopo la resa dei conti, disprezzandone il modus operandi)
Antitetici sguardi di un’identica persona, sbirro e assassino costituiscono una coincidenza d’opposti in un genere dove non conta chi è cosa: rispettivamente giallo e scioglimento, preda e cacciatore sono interscambiabili pedine la cui immissione è sufficiente a edificare il meccanismo, e l’equa concezione di bellezza ascrivibile all’abiezione-degradazione del corpo (“Odio le cose belle”, dice il piedipiatti; “Sei brutta!”, esclama il body double torturando la modella Celine). Il corpo resta materia plastica da sfigurare, riplasmare, ripresentare in forma di codice criptico (la bocca di una vittima, organo rivelatore del biascicato indizio che scioglierà la matassa), laddove il comparto femminile, rispetto alla precedente produzione del cineasta, leggermente s’ammorbidisce: prima che nell’estetica, la donna artificiale lo è nell’assoluta distanza dall’esistenza (le straniere in Italia lontane dal loro milieu), come suggellerebbe unaccezione spazio-temporale (la reclusione e l’assenza dall’esterno), adibita a rimarcare la predilezione di ambienti chiusi in cui la femmina agisce. La traslazione d’una vittima mai passiva e all’occorrenza provocatrice, che si ribella e fugge, serba il comune sangue di chi, indomita eroina, non si dà per vinta: mai incline al Male, il proprio valore distintivo l’allinea all’antagonista Volpe per valicarlo nell’epilogoforza d’animo e astuzia permettendo, volti a farne potenza irriverente e schiacciante. Il killer è anello di congiunzione tra le due parti, nonostante il turbine di rovesci vanifichi in nome d’una cieca giustizia (“Ha preso il taxi sbagliato”, sancisce l’ispettore)
Se il prologo nella sfera dell’alta moda riporta ai Vanzina di Sotto il vestito niente, il cui plot non fa mistero di guardare ad Argento, il coraggio nel reiterare una tipologia d’ambiente emulata e superata fa di Giallo una proposta teorica di riflessione sul genere: oltreché riferito all’ittero del mostro, parte costitutiva del mosaico (ironicamente, il covo è situato in via Lazzaretto), il giallo non è arcano ma soluzione, unica ipotesi plausibile e necessaria per continuare a girare. Allargando la raggiera spostata su terreni congeniali, l’autore passeggia dentro sé stesso1 percorrendo una confezione disossata in ogni fotogramma: ancora una volta Torino, set prediletto per interi assetti o fugaci patch, l’attenzione al dettaglio (la siringa del maniaco alla luce duna lampada), il gusto del tropo (dal teatro d’opera nell’incipit alla giovane malcapitata in taxi, sotto una pioggia scrosciante, sino al tipo di morte che fa Volpe), accludendo feticci hitchcockiani o presi a prestito da Antonioni (i flash fotografici dell’omicida, che scatta e rimira sanguinose istantanee). È però il dualismo tra vero/inverosimiglianza, autentico detonatore aneddotico, a rivelarsi (gli spunti del lavoro e della famiglia), nell’incongruenza e nei rischi di azioni prevedibili (il rivolgersi alla polizia e non essere dapprincipio creduti). E sempre per (in)verosimiglianza, senza venir meno a ipertesti di cronaca che riecheggiano il documento-inchiesta di quarant’anni prima, la salvezza si concede per mera casualità (la sopravvissuta Celine in un bagagliaio, come la superstite del Circeo). Cieca è la fortuna, quanto la chiave dell’enigma: gli Occhiali neri
sono dietro l’angolo…

Francesco Saverio Marzaduri 


1 Giallo è anche l’omonimo programma televisivo RAI cui il cineasta partecipò attivamente, spesso cimentandosi in una varietà di saggi delle proprie “specialità”. 

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