Il bottone della palandrana: LA STRANEZZA

Il bottone della palandrana: La stranezza 


La duplice visione, in due giorni distinti, del nono lavoro cinematografico di Roberto Andò coincide con una peripezia editoriale accadutami a ridosso: attendevo ansioso che una mia recensione, teoricamente destinata alla monografia d’una collana cartacea, fosse pubblicata con altre, firmate da nomi d’un certo prestigio. Venni poi a sapere che il pezzo sarebbe uscito sul web per l’edizione ebook del numero, sostituito da un altro sulla monografia a stampa. Figurarsi il mio sconcerto, ben sapendo che nel milieu in questione tali episodi si verificano troppo di frequente, assurti a lecito dogma di quell’implacabile moloch del mercimonio imposto dallo showbiz, a scapito di poveri cristi dediti a coltivare la propria infiammabile passione investendovi tempo, energia e vita, senza alcuna ricompensa. Il rimpianto dell’effimera gloria – ancora una volta inafferrabile miraggio, la cui concretizzazione si concede solo a firme di cartello – fa pendant con un’umiliante scorrettezza che ostenta la necessità di prostituire arte e talento, allo scopo di godersi un utopico barlume di successo. Non del tutto sopito, il livore del weekend s’è via via dissipato nella mise-en-scène che il palermitano Andò offre qual accorato omaggio alla Sicilia e ai due eponimi nomi della letteratura, qui nelle rispettive sembianze di Toni Servillo e Renato Carpentieri, impegnati nella restituzione dell’incontro tra Pirandello e Verga, a Girgenti, per festeggiarne l’ottantesimo calendario. Tributo culturale tout court sentitamente dedicato alla memoria di Leonardo Sciascia, il quale consegnò a un allora giovane cineasta una preziosa biografia, a cura di Gaspare Giudice, sulla penna agrigentina (“C’è una specie d’invenzione del teatro”, riporta il grande scrittore nella raccolta La corda pazza, “egli inventa, cioè nel senso più proprio trova, il teatro nella vita, nell’istintivo impetuoso scorrere di tragedia e commedia”). Se poi in tema di ossequi il cinema è una fucina ininterrotta, tra dichiarate trasposizioni e apocrifi reboot, l’accostamento più azzeccato è quello coi Taviani di Kaos, d’una quarantina d’anni fa, ribadito dall’inclusione di feticci pirandelliani – la madre defunta, cui rivolgersi alludendo alla stranezza del titolo, o la luna fonte di incessanti sguardi e invocazioni – già fulcri per i segmenti del corale mosaico. Ma è la dipartita, il reale cardine che aleggia su un assunto in perenne divario tra serio e buffonesco, testimoniato dall’impiego del duo Ficarra-Picone, beccamorti col pallino della filodrammatica, in linea con una disamina rimpolpata di critica sociale sulla corruzione stagnante nel ramo delle pompe funebri. Celebrata dalle esequie dell’amata balia dello scrittore (fu lei a narrargli fatti e dicerie su Girgenti, sovente imprimendo autentica vena creativa all’opera), la Morte è il leitmotiv dal quale egli è consapevole di non potersi, né sapersi allontanare accompagnandolo fin nello scompartimento della destinazione, lungo la strada dell’incrocio (non del tutto) insolito coi becchini, della loro sfera, dell’intero comparto folklorico che fonde tradizione, grottesco, stereotipo – gelosia compresa. “Il teatro è verità”, confidano allo straniato e divertito ospite Bastiano e Nofrio, cui ovviamente spetta l’ilare condimento per una trama enigmatica che, all’inverso, sorprende un Pirandello scettico, incapace d’esprimere ripulsa verso la forma teatrale tradizionale, intento a declamare versi suoi al centro d’una stanza abitata da entità che lo tallonano (soggetti, ipse dicit, “molto esigenti”). E benché il trapasso aleggi persino nella farsa allestita dagli impresari (la seduta spiritica stemperata in macchiettismo, in odor de Il fu Mattia Pascal), è curioso come l’utilizzo del fattore accomuni il protagonista allo Scarpetta impersonato dallo stesso Servillo nel recente Martone di Qui rido io: in ambo i casi, drammaturghi che fronteggiano un’univoca sorte di figure solitarie e depresse, nonostante la fitta cerchia familiare del secondo cresca dietro le quinte. E tuttavia, vincoli affettivi ed effetti legali permettono, nel costante intreccio di talento e sforzi, di trasformare un’udienza in diritto alla satira in forma d’ulteriore commedia dell’arte. Laddove la consorte è malata di nervi, analogamente il futuro premio Nobel è animato dalla strenua ricerca – la grande magia – del misterioso accordo realtà-artificio e conseguente riverbero (“Noi autori abbiamo l’ambizione di rendere plausibile ciò che non è”). Recandosi, ogni volta che può, nel teatrino ove i capocomici Nofrio e Bastiano provano La trincea del rimorso, Pirandello individua la vocazione sin lì oscura trafugando (indirettamente) l’idea, sottraendosi agli attanti dietro boccascena e tende, e la sera della prima, curioso spettatore, servendosi dell’accesa reazione del pubblico: marcatore deittico teso a spiazzare le attese, nel sempiterno bisticcio verità-finzione – il medesimo che combina vita e sentimenti, genuini o presunti, accludendo i piani di caos ed ordine oltre a quelli citati. Uomo d’apprendistato teatrale, attento a non omettere il minimo luogo canonico, Andò confeziona “una fantasia sull’atto creativo, sull’ispirazione” entro una sontuosa cornice in cui l’ipotetico antefatto, tra ricostruzione d’epoca e calligrafismo, accosta la genesi dell’esistenzialista Sei personaggi in cerca d’autore alla tumultuosa rappresentazione a Roma, il 9 maggio 1921: spiazzato dalla rivoluzionaria novità, il pubblico esprime dissenso urlando “Manicomio!”, “Buffone!” e assortiti epiteti di cui il drammaturgo, nei successivi Questa sera si recita a soggetto e Ciascuno a suo modo, si rammenterà, confezionando dichiarate provocazioni e ritagliando per sé la doppia funzione di deus ex machina nascosto e d’invisibile comprimario. Resa dei conti totale, come noto, ove il confronto incandescente tra platea e attori sublima nell’apparizione dello scrittore, a braccetto della figlia, affrontando vis-à-vis il drappello di facinorosi che l’attendono offrendosi, imperturbabile, al loro responso. Il resto è storia, ché il successivo trionfo dell’opera ne avrebbe ingigantito la fama e consentito un’incalcolabile pletora di adattamenti. Relativamente alle espressioni dei buggerati becchini, nella scena finale, chi scrive ritrova un affine déjà vu sia pure sfumato di mesti sorrisi: traditisi a vicenda dietro le quinte, attoniti osservatori (e avviatori ignari) d’una circostanza bigger than life, non sono che malinconiche sagome destinate a colmare lo spoglio del palco, figure mitiche e minuscole in cerca d’autore. Parimenti un Pirandello ladro di sogni, tacciato da Verga di tradire il Verismo, trasecola nell’apprendere che gli ospiti non hanno ritirato gli inviti: “Se sei un uomo”, afferma Seneca, “devi rispettare colui che cerca di compiere grandi imprese anche se non ci riesce”. Il gioco di parti e maschere persevera, la ricerca – il bottone della palandrana – per una volta è compiuta. 

Francesco Saverio Marzaduri 

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