Brivido freddo: TI PIACE HITCHCOCK?

Brivido freddo: Ti piace Hitchcock? 


In materia di piccolo schermo, nella serie Storie incredibili prodotta da Spielberg, ci si ricorderà di un episodio firmato da Todd Holland in cui un teenager ossessionato dal cinema horror, rievocando l’immortale doccia di Psyco, si ritrova invischiato in un incubo che lo impossibilita a distinguere il vero dalla finzione. E al centro de La finestra della camera da letto, girato da Curtis Hanson a ridosso del segmento, è la disavventura del finto testimone di un’aggressione, che, alle prese con un gioco ritortosi contro di lui, è avvicinato dalla vittima della colluttazione per incastrare il colpevole. Di lustro in lustro, la giocosa voglia di emulare Hitchcock predispone un pot-pourri tra appassionati e aficionados sull’identico asse d’uno stucchevole “già visto”, spremendo succo e meningi, tanto da privare la fantasia di qualsiasi barlume d’idea. Non v’è dubbio che La finestra sul cortile sia da collocare tra i più amati e citati capolavori del maestro del brivido; né che negli stessi anni in cui collabora all’americano Masters of Horror, un Argento sessantacinquenne, non nuovo ai paradigmi televisivi, realizzi un tv-movie a coproduzione internazionale – negli States curiosamente raro – pensato quale pilota d’un telefilm, mai concepito, in quattro puntate replicando l’esperimento artistico collaudato anni addietro con La porta sul buio. Il cineasta romano non ha mai fatto mistero di appartenere alla combriccola degli affezionati, prediligendo Hitch quale eponimo ipertesto. Fatto sta che dai tempi della “trilogia degli animali”, con la quale nei primi anni Settanta inaugurò la propria filmografia, di acqua sotto i ponti, tra novità e sviluppi nella captazione del prototipo, ne è passata in abbondanza. Ed è cambiato il pubblico, per soddisfare il quale, una confezione-sunto che condensi l’orrifica visionarietà di Argento, costituisce un azzardo. 
Appare visibile già in partenza la scommessa di offrire qualcosa di eccessivamente collaudato, coniugato a un differente parametro (la ricezione del mezzo filmico) e teso, laddove possibile, all’aggiornamento d’una disamina teorica: la sistematica inclusione di manifesti e locandine, da Vertigo a Marnie, sulle pareti d’una stanza o sulle vetrine d’un negozio di home video, è luogo canonico sin troppo palese di un’indagine, offerta grossolanamente, su un delitto avvenuto in un palazzo nel Torinese, di fronte a quello in cui dimora un occhialuto studente di cinema. “In realtà faccio me stesso – confessa il regista, qui anche sceneggiatore in compagnia del sodale Franco Ferrini – perché il pubblico vuole vedere Dario Argento che fa la tv, ma con la sua personalità. Ho cercato di realizzare Ti piace Hitchcock? come un vero e proprio film, non come una fiction: con un tourbillon di inquadrature, inseguimenti, fughe, colpi di scena. Un po’ di realismo e un po’ di fantastico”. Sincerità ripagata a 360°, disseminata di immancabili feticci (una mano guantata che apre una porta, una pioggia scrosciante), e invenzioni quali la soggettiva dell’omicida o i primissimi piani su serrature scattanti, riplasmate secondo standard, senza trascurare l’apporto di effetti speciali visivi e sonori. Stile accolto da mezzo secolo nell’immaginario collettivo, cui il non dimenticato autore di Suspiria imprime ad hoc un tocco d’autoreferenzialità (l’affiche de Il cartaio, titolo immediatamente precedente) e di ovvia, quanto gratuita, sessualità. I cromatismi rossastri, da un certo punto in poi, sembrano addirittura riecheggiare la gotica atmosfera thrilling di cui il Nostro fu fautore, insieme a Pupi Avati – e l’incipit, con un bosco nell’Astigiano a far da cornice, riporta a La casa dalle finestre che ridono, con tanto di risate sguaiate da parte di due megere che s’apprestano in una stamberga a sacrificare una gallina. 
Ma ancora una volta è una pellicola di Mario Bava – La ragazza che sapeva troppo, generalmente considerato il capostipite del giallo all’amatriciana – il punto di riferimento ché l’inverosimiglianza della situazione-spunto, con un protagonista coinvolto suo malgrado, svela l’origine di tanto (troppo) cinema italiano a tinte fosche. Persino in un’operazione televisiva non si fanno sconti a un climax inquietante e sinistro, fomentato da luminosità e rumori ossessivi: si diceva, però, che il linguaggio mediatico imposto e autorizzato disinnesca la politique argentiana, e quasi l’addomestica, poiché l’autore rimane ancorato alla centralità del cinema e a una raggiera dilatata quanto inafferrabile, senza venir meno all’effetto grandguignolesco. Si vuole “liquidare” – constata l’acuto Roberto Pugliese – un preciso debito condotto al massimo sviluppo, smascherato in ogni tassello, ove scatole cinesi, coup de théâtre, doppi epiloghi non sono l’indizio più meritevole dell’analisi. Sicché, negli ineludibili difetti, il risultato è un divertito giochino citazionista che rastrella pattern hitchcockiani, nella fattispecie rifacendosi a L’altro uomo (due ragazze caratterialmente differenti si frequentano di continuo, e la genitrice di una è brutalmente assassinata), cannibalizzati, rimescolati e riproposti (la gamba immobilizzata di Giulio dopo un’accidentale fuga, l’istruttore di tennis con cui la madre del protagonista vorrebbe convolare a nozze, un corpo da salvare sospeso a mezz’aria da un parapetto, e così via). Elementi assemblati insieme ad altri di matrice affine, lungo una falsariga dichiaratamente metatestuale costellata di varianti, variazioni, deviazioni: a partire da un voyeurismo ricalcato da De Palma (e qui le musiche, vedi caso, sono curate da Pino Donaggio), in aggiunta a una pletora di rimandi ai classici (la tesi del giovane sull’espressionismo, e in particolare su Fritz Lang, cui si dedicava una strada in Quattro mosche di velluto grigio). 
In sostanza, un bignami che s’interroga sul modello filmico, proprio e altrui, ove, relativamente al colpo di scena, il maggior pregio sta nel lavoro dell’attesa prima che nella biforcazione suspense-sorpresa, attraverso una dilatazione temporale tirata allo spasimo. Se la restituzione di tale “fatica” è ripagata nelle sequenze, eccessivamente prolungate, dell’inseguimento in motorino o del tentativo di annegare il protagonista, in ugual misura le carenze rientrano in una dissertazione analitica, dal doppiaggio in asincrono all’imbarazzante recitazione (lo stesso Elio Germano offrirà di sé prove ben più apprezzabili). Ma superato il brogliaccio – la celluloide che si confonde e trasforma in malaugurata realtà – l’osservatore non si sorprende più di niente; e non bastano l’eterna misoginia, o l’ironico moralismo nello sguardo finale di Giulio, a salvaguardare un discorso di “storia infinita” invero conclusa da un pezzo.

Francesco Saverio Marzaduri 

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