La schizofrenia del genere
La
schizofrenia del genere
Entra
subito nel vivo, l’analisi che Fabio Zanello dedica a Vivere
e morire a Los Angeles,
nel suo volume edito da
Gremese per la collana “I migliori film della nostra vita”. Lo fa sin dal prologo, stilando un percorso imprescindibile sui
mutamenti dei generi noir
e poliziesco, che in pieno revanscismo reaganiano anni Ottanta
converge sino a fare, di entrambi, un unico complementare filone, che
di fatto impone nuove chiavi interpretative. Tale sintesi – che
accosta veterani quali Frankenheimer o Lumet ad emergenti leve, quali
i fratelli Coen e Lynch – finisce per stratificare le zone di
confine tra i due generi in un fronte più ampio: l’inclusione di
collaudati luoghi canonici, sì ricorrenti nell’epos
cinematografico, pone questi ultimi davanti
a
una riflessione estetica che abbraccia ogni elemento dell’operazione,
aggiungendo una nuova pagina all’attuale postmoderno (Tarantino
emergerà nel successivo decennio), e pure un continuo ribaltamento
di prospettive, individuando
firme tutelari in Mann o Ferrara e facendosi, a sua volta, canone.
Giunto al dodicesimo lungometraggio dopo una filza di sventurati
progetti – ben lungi, tutti, dai trionfi al
box office
de L’esorcista
–
William
Friedkin opta per un esperimento mainstream,
ove
l’assortimento delle possibilità espressive concesse dal police
story vira
più in alto, in una ricchezza mediatica in cui materia e intrecci
sono parte integrante d’una dissertazione sociopolitica: quadro
d’insieme d’un bilancio umano irredimibile, ma pure occasione per
dispiegare un’individualità artistica attraverso forme filmiche
riplasmate secondo un riconoscibile stilema. Accantonando il
precostituito pattern
secondo cui i personaggi di Friedkin non serbano alcun motivo
d’empatia, interconnessi tra loro da un’allucinata ed
inspiegabile ricerca – null’altro che l’intricata dicotomia tra
Bene e Male – le assi narrative coniugano
l’ascissa della temporalità all’ordinata della restituzione
scenica: i quaranta giorni di caccia tragica, da parte di due agenti
dei servizi segreti, si offrono come un ballo sanguinario e
rutilante, magistralmente reso dai cromatismi tenui e diffusi di
Robby Müller.
È per merito del compianto direttore della fotografia, feticcio di
Wenders e Jarmusch, se qui la “città degli angeli”, prima che
metropoli caotica, è caleidoscopio immerso in una fenomenologia
anti-psicologica e iperrealista (“Robbie aveva scelto pellicola
Fuji al posto della Kodak che veniva usata comunemente. Gli piaceva
perché i colori avevano un livello di saturazione maggiore”).
Zanello approfondisce il concetto offrendo aneddoti sulle opzioni di
Müller,
i filtri impiegati,
il gioco di contrasti che fa dei corpi al centro ombre morbide e
impercettibili. E, ultimata l’analisi della pellicola scena per
scena, non trascura
di segnalare come il montaggio ad opera di M. Scott Smith – così
serrato e concitato come non si vedeva da certo Peckinpah – riveli,
nella sua molteplicità, di aver metabolizzato l’estetica del clip,
fertile terreno di ricerca visuale per tanti cineasti. Apporto non
irrilevante, in tema di colonne sonore, viene riconosciuto alle note
dei Wang Chung, essendo il regista-sceneggiatore da sempre
interessato alla sperimentazione in
campo
musicale, speculare alle espressività nella struttura visuale:
sicché l’alienazione urbana, condimento di vicenda e azione, non
avrebbe l’identico impatto senza quegli affondi, quelle dissonanze
e accensioni. Non per nulla, il volume termina con l’estratto di
un’intervista a Jack Hues al Torino Film Festival – realizzata da
Daniela Catelli, a sua volta autrice di un’introduzione al testo –
che spiega la grande libertà creativa concessa dall’intuitività
di Friedkin: quid
che consente di spaziare nei dintorni di novità forse troppo ante
litteram
per esser comprese nell’immediato, pur senza lasciare indifferenti,
e sfociante in una longeva amicizia tra il film
maker
e il gruppo. Colpa d’una distribuzione poco interessata sul piano
meramente remunerativo,
anche Vivere
e morire a Los Angeles
non riscuote consensi
presso un pubblico abituato a modalità action
al
testosterone, assai più kitsch,
in linea con lo spirito dell’epoca: eppure, si evince dall’esegesi,
trattasi
d’un lavoro nel quale il non dimenticato autore de Il
braccio violento della legge si
spinge alla strenua ricerca di un’impareggiabile meraviglia,
superando sé stesso nella strategia della velocità, e recuperando
quella libertà creativa propria solo di esordienti leve, in barba a
logiche produttive e a necessità di botteghino. E se l’opera si
pone quale ulteriore sfida sul piano del casting,
essendo gli interpreti quasi tutti sconosciuti e destinati a divenire
volti di culto, suggestiva, col senno di poi, è la polemica
dell’arte ridotta a oggetto di mendacità: ambiguo strumento
merceologico da contraffare, corrompere
e,
analogamente alla sessualità, prostituire
per tirare avanti in un universo
fondato sulla brama di possesso
(viceversa,
relativamente all’immaginario visivo, l’esito si biforca tra
videoarte e avant-garde);
brama che induce
i protagonisti a trafugare soldi veri per acquistare denaro
contraffatto, onde incastrare il falsario Willem Dafoe. Il comparto
di topoi
ostentato – dal leguleio doppiogiochista alla pupa del gangster,
alla sbandata informatrice – solo in superficie
è convenzionale a un impianto che non si esime neppure dalla più
tradizionale drammaturgia: pretesto tra enumerabili altri per la
metamorfosi d’un genere (rinsaldato dalla collaborazione di
scrittori quali Elmore Leonard, Ronald
Bass,
James Ellroy, Brian Helgeland e altri) che, transitando
dall’insuccesso in questione, non potrà tornare sui propri passi.
Né, tanto meno, essere il medesimo.
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