MAIGRET: ombra del passato o passato nell’ombra?

Maigret: ombra del passato o passato nell’ombra? 


Mai come l’anno appena trascorso – scrive Aldo Fittante – la morte ha voluto farsi bella divorando ingegno e incanto nel mare magno della cultura, prevalentemente seminando vittime in generazioni anziane, prossime al congedo, lasciando gli eredi, o sedicenti tali, stupiti e talvolta attoniti dinanzi al vuoto. Sicché, quando si pensa a una figura letteraria a cui non servono presentazioni, subito viene naturale immaginare di ritrovarsi in un tempo inesorabilmente perduto e lontano, che un riadattamento dai toni dimessi, tanto lividi e scabri – tesi alla restituzione d’un comparto urbano iconograficamente semi-spoglio – accentua al pari di un’indagine assai meno importante di tutto il resto. S’accluda una fotografia tutta mezze tinte, a cura di Yves Angelo, e un montaggio asciutto d’impostazione classica, firmato 
Joëlle Hache, che alterna interni, esterni, riprese di spalle. In siffatta chiave interpretativa, guarda caso nello stesso 2022, s’incanala il Maigret dell’omonimo, trentesimo lungometraggio di Patrice Leconte, il cui trascorso da fumettista, non per nulla, insinua nella Parigi anni Cinquanta una dimensione ombrosa e dimessa, che non ha niente da invidiare alle trasposizioni con cui la memoria collettiva è cresciuta. Riesce ostico, sulle prime, accettare che i tropi identificativi del personaggio di Simenon, probabilmente il narratore col più ampio numero di opere trasposte su grande schermo, nell’incarnazione d’un appesantito e inaspettatamente misurato Gérard Depardieu siano pressoché azzerati sin dall’inizio, quando al commissario, visitato dall’amico medico, viene proibita la bonne cuisine e (licenza delle licenze!) l’amata pipa-simulacro. In tale modalità – l’assenza – l’intrigo incentra/concentra la disamina, testimoniata nell’estremo fotogramma dalla sparizione del protagonista, in profondità di campo, mentre passeggia lungo una strada vuota. 
Non interessa più di tanto che questa tardiva rilettura, volutamente fuori epoca e fuori registro, tragga origine da La giovane morta, pubblicato nel ’54, e stando alle dichiarazioni del cineasta (qui anche sceneggiatore a quattro mani col sodale Jérôme Tonnerre), ancorché intenzionato a girare un apologo discrepante dai precedenti, pare non esservi più stato un Maigret in sala dal ’58. Un’attesa alquanto lunga e sofferta, ove la chilometrica distanza temporale, quella del ricordo in celluloide, perde inesorabile ai punti con quella, ben più dolente, dell’anacronismo narrativo, registrato dalla fugace uscita del film a inizio stagione e da un conseguente gramo successo (fuorché, comprensibilmente, in Francia). Non è più l’era dei Maigret, tanto meno di esegesi come quella in oggetto: lunga è la casistica di volti succedutisi via via a incarnare questo sagace e umano poliziotto dalla scorza burbera, accigliato quanto comprensivo, nella misura in cui i reboot si rivelano una comoda operazione per il piccolo schermo. Non sempre all’altezza gli interpreti: se Bruno Cremer non fa rimpiangere il nostro Cervi, imprimendogli un tocco debitamente français, la maschera mingherlina dell’inglese Rowan Atkinson, coraggiosa nel tentativo di svestire panni ilari ormai collaudati, è riconducibile al comparto miscast. E chissà cosa penserebbe Simenon, oggi, di fronte al corpo-Depardieu (chiamato a sostituire Daniel Auteuil), alla prima collaborazione con Leconte dopo una serie di progetti mai concretizzati: consapevole senza dubbio di confrontarsi con robusti prototipi, eppure capace di conferire barlumi d’originalità a un esperimento démodé – l’unico che renda possibile coniugare la mimesi attoriale con una riviviscenza personale, che chiama in causa un movente più intimo e privato: l’incancellabile (e insolvibile) rapporto paterno-filiale. 
Chi conosce la pagina simenoniana, e magari si sbizzarrisce nell’individuare una physique du rôle fedele alla descrizione cartacea, fatica a distanziarsi dal Maigret per antonomasia – Gabin, ovvio – e si trasecola nel segnalare come l’eccellente caratterizzazione di Charles Laughton, ne L’uomo della Torre Eiffel, non fosse gradita al letterato. “La struttura era plebea. Maigret era enorme e di ossatura robusta. Muscoli duri risaltavano sotto la giacca e deformavano in poco tempo anche i pantaloni più nuovi”. E ancora: “Arrivava solido come granito e da quel momento pareva che tutto dovesse spezzarsi contro di lui, sia che avanzasse, sia che restasse piantato sulle gambe leggermente divaricate”. L’assortita pletora risponde, dunque, d’un gaudio puramente filmografico, attento però a non tradire quel ch’è la connotazione principale: l’esteriorizzazione del sentimento, assorbito dal ruolo chiamato a ricoprire, camuffato da una glaciale indifferenza relativamente priva di giudizio, e via via sfumato nei segni dell’esistenza. Se l’eponimo Gabin era, e rimane, faccia appropriata nel solco del noir secco e duro, il polar di Leconte, in poco meno di un’ora e mezza, è incastonato nella solitudine di un’effigie minuscola nonostante la robustezza, fotografata di volta in volta in spazi che inesorabili ne sanciscono la minuzia e, da un istante all’altro, l’imminente trasparenza (dall’interno d’un bistrot a una stazione di corriere, da una lunga scalinata alla panchina d’un parco). Tra quai e fisarmoniche, Parigi stessa è un “non-luogo” denaturato, contrappuntato da un’anonimia iperrealista, e il decennio Cinquanta un orologio in cui tutto sembra essersi fermato, ora indeterminato ora tardivo: appare presto evidente come l’inchiesta, convenzionale in superficie, sul barbaro omicidio d’una giovane provinciale – a sua volta priva di specifica identità – fornisca lo spunto per una parabola di disillusione, in cui l’innesto d’una pietas inaspettatamente svelata funge da autentico epicentro nello scioglimento della matassa. 
Se il fascino (in)discreto della borghesia è sempiterna règle du jeu, squadernata da dinamiche sociali vetuste, dettate dagli antitetici meccanismi del ceto sociale, l’incarnazione d’un Depardieu al contempo evanescente e tellurico, che una limitata quantità di ciak asseconda nel non dissiparne le sottrazioni, ha tutta l’aria di un’aperta confessione. Quasi che l’interprete, a mo’ di riverbero, si rivolgesse al proprio doppio (si pensi all’immagine riflessa sullo specchio d’un café o, intento a radersi, nel bagno di casa), trasposto in un assiduo gioco di confronti e scambi, accentuato dall’interesse verso la misteriosa randagia che, nel momento culminante della risoluzione, è oggetto d’una proiezione fantasmatica. Pure, nei lineamenti di quella giovane sbandata e fragile che si premura di proteggere, il commissario non scorge soltanto la somiglianza con la vittima, ma sembra ritrovare la perduta paternità – ormai livida memoria – atta a conferirgli l’estremo spiraglio d’una luce (di etica giustizia). Per continuare a osservare, registrare, comprendere. Frugare nelle rimembranze personali, o perdute. E, denudando anima e corpo (l’incipit lo fotografa nell’atto di spogliarsi), tirare ancora avanti e – anzi – esistere, con un bicchiere di bianco in mano. Leconte ambisce a un Maigret di diversa impostazione, dissimile dagli archetipi che furono: ciò non dissolve l’impressione che il suo sia un alter ego assai più attiguo allo scrittore, l’un l’altro medici mancati, e nella filigrana del primo è facile intravedere una tormentata riproduzione del secondo, “peccatore” di eccessi alimentari-sessuali, coprotagonista di un’ambigua relazione con la figlia conclusasi col suicidio di costei, poco più che ventenne. 
Una simile icona non disdegnerebbe pose ciniche ad alto tasso di freddezza: ma proprio i dubbi che tanto ne arrovellano lo spirito, trasparenti dai silenzi con la moglie (“Non sembri più tu”), ne fanno un cane sciolto maggiormente ammansito e indulgente, privo del maggior marcatore deittico senza cui – confessa – si sente come le vittime delle proprie indagini. La corazza, recita la sua constatazione, crolla con tutte le certezze obbligando a tornare bambini intimoriti dal buio. E se legami aneddotici emergono univoci tra i coniugi Maigret, i soli plausibili a perdurare uno stanco ménage, a chiudere il discorso provvede la figura del tappezziere di Vilnius – ulteriore alter ego simenoniano – condannato a rivedere la figliola scomparsa in ogni fanciulla. Immobile è il tempo, non lasciando altro testimone che la perdita di generazioni venture (il transfert familiare di commissario e signora, mentre partecipano alle esequie della giovane vittima). E mentre il Nostro “tradisce” la vulnerabilità riposta gelosamente, esternandola lungo una fioca falsariga, l’osservatore è attento a non tradire il senso del procedimento, rammentando che il Maigret in oggetto è una rivisitazione. “Questa è una Magritte”, sancisce ironico con una pipa in mano, giocando con l’assonanza del proprio cognome, laddove la battuta originale rimanda al noto quadro dell’artista, belga come Simenon (la confezione, del resto, è una co-produzione franco-belga). Sicché, nella dimensione colta dell’astrazione, l’esito assume le sembianze del gioco metatestuale (e metacinematografico), ché lo scambio di parti annovera uno scambio d’identità da cui dipendono scioglimento e conseguenze: Leconte è l’autore de L’insolito caso di Mr. Hire, anch’esso tratto da Simenon e altrettanto incentrato su un omicidio, e pure di L’uomo del treno, ove l’interscambio tra due personalità differenti, nell’ultima drammatica mezzora, conduce a un’effimera, telepatica permuta che le immagina rivivere ciascuna la rispettiva esistenza. 
Operina di spettri e proiezioni, che all’occorrenza non dissimula hitchcockiani escamotageMaigret contempla personaggi indotti dall’empatia ad assumere spoglie altrui, riveriti da stacchi violenti e netti nell’attimo in cui l’intuizione ha il sopravvento. L’indagine è l’ultima in ordine d’importanza, in primo piano vi è l’uomo alle prese con assilli laceranti: tanto più la vicenda è ridotta all’essenziale, concedendo libere licenze in una sfrondata gestazione, quanto più l’ossessione investigativa per la defunta, pattern tra i più impiegati, emerge quale strumento di chiarezza. Acconciata e abbigliata come la vittima, l’emarginata Betty appare agli impuniti “colpevoli” di Ville Lumière gettando i presenti nello sconcerto: un flash fantomatico, speculare di lì a poco al fotogramma della giovane morta, in bianco e nero, su un grande schermo. Col pensiero probabilmente rivolto alla figlia, Maigret la fissa nell’oscurità della sala; l’effigie lo ricambia, quasi ringraziando. Ancora e sempre, il cinema consegna all’immortalità chi non esiste più, né può più esistere dentro una pellicola (e un set cinematografico, guarda un po’, fa capolino ogni tanto). Così pure un non-Maigret assediato da sofferenza e disincanto, capace di rielaborare ma non di giudicare, che si dissolve in un finale-epitaffio: ombra d’un passato nell’ombra, e forse privo di essa. Scatole cinesi d’un cinema vintage, che empatico continua… 

Francesco Saverio Marzaduri 

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