La luce del giorno: IL MAESTRO GIARDINIERE
La luce del giorno: Il maestro giardiniere
“Il soggetto di un film è solo un pretesto: è la forma, molto più che
il contenuto, a colpire lo spettatore e farlo elevare”
ROBERT
BRESSON
Esistono
film che per qualche ragione squadernano l’obiettivo di partenza
ancor prima del loro sviluppo. E tuttavia, fingendo di non sapere
nulla circa la loro confezione, pochi semplici istanti ne rivelano la
via d’accesso. Ne testimoniano persino la riflessione teorica.
Nessuno mai penserebbe che pianticelle fiorite su fondo nero –
nell’atto di sbocciare rigogliose, durante i titoli in apertura
de Il
maestro giardiniere –
rechino la firma di Paul Schrader, regista-sceneggiatore di navigato
mestiere, un tempo sensibile a temi di tipologia differente, rigorosi
quanto reazionari. Salvo, un attimo dopo, rammentare come l’occhio
estetico del cineasta di Grand Rapids restituisca una saggezza e una
morbidezza acquisite lungo un itinerario spirituale, in cui i
calendari a disposizione incappano in un ripensamento in linea con la
contemporaneità. Se, nell’opera complessiva del Nostro, rari han
da essere i toni in cui la durezza della vita si stempera nella
sfumatura di atteggiamenti e situazioni (le carezze, sovente
ribadite, dal vetro d’un parlatorio...), il topos del
giardinaggio assurge, prima che ad allegoria, a culmine d’una
visione etico-esistenziale; che nelle parole del riservato e
meticoloso orticultore Narvel Roth, ultimo d’una prolifica dinastia
di creature catartiche, indicano fede nel futuro e certezza di
cambiamento.
Ventiduesimo
lungometraggio per il grande schermo, Il
maestro giardiniere non
è tuttavia l’estremo banco di prova per Schrader, benché in
Italia esca un anno dopo la première veneziana
in cui gli viene consegnato il Leone d’oro alla carriera. Come nel
più recente Oh,
Canada,
presentato alla Croisette, l’assunto non svicola dai rovelli ed
ossessioni – complessi
di colpa,
se si vuole – che tallonano le sue figure, di quella matrice
letteraria che il genio del regista-sceneggiatore plasma e rimodella
in effigi ogni volta aggiornate. Né si può parlare di
prodotto vintage,
ché l’occhio trascendentale, maggiormente ora più che in passato,
estrapola frutti disinvolti d’avvolgente maturità, adibiti a farne
visione mai surclassata e sempre singolare. A cominciare dalla
narrazione fuoricampo di Narvel, che riporta giornate e segreti sul
suo taccuino: abat-jour in bella mostra, obiettivo dall’alto in
basso e luce circolare in totale oscurità, il tropo del diario tende
a ricondurre il capitolo in questione a un più corposo apparato
metalinguistico, facendo del protagonista l’ennesimo simulacro
e alter
ego del
cineasta. E al pari del suo precedente Il
collezionista di carte, questo film
altro non è che una forma confessionale di cinema dietro la veste
diaristica. Meglio: una forma
mentis che
s’alimenta dei propri tormenti in embrione, spesso a rischio d’un
catalogo esemplare quanto di maniera, coltivandoli a partire dalla
consapevolezza d’una modalità intransitiva di scrittura. Pena un
risultato complessivo che difficilmente suscita empatia
nell’osservatore, confermandosi principale motivo per cui Schrader
non è riconosciuto regista all’altezza della preparazione teorica:
la freddezza è inamovibile spartitraffico d’ogni alchimia in linea
col rigore e la rigidità di ciascun personaggio, certo, ma sempre
vincolato dal quadro cinéphile dei
tre eponimi nomi – Bresson, Dreyer, Ozu – che dalla carta alla
celluloide imbastiscono l’opera, costituendo un vero trompe-l’œil.
Dai
tempi di Taxi
Driver,
tale cinema è una costa solitaria che, per ribadire il rituale,
necessita di quell’emarginazione vincolante, equamente virtù e
difetto, resistendo al sistema produttivo e ad un pubblico in
costante evoluzione. Un’altra simile non c’è. E benché non sia
concepito a mo’ di trittico, Il
maestro giardiniere segna
un anomalo culmine, insieme a First
Reformed – La creazione a rischio e
il citato Collezionista,
sulla tematica “uomo solo in una stanza” in piena crisi
esistenziale, che in attesa del mutamento, lottando col passato, si
ritrae nel lavoro. Senonché, qui lo spunto di partenza (una ricca
vedova che affida al giardiniere suo dipendente la giovane e
irrequieta pronipote) dispensa venature da feuilleton ottocentesco
che l’elegante fotografia del sodale Alexander Dynan, avvolgendo la
luce in un cromatismo marcatamente rossastro1,
arricchisce di suggestioni à
la Henry
James. Se s’aggiunge che Schrader disegna il personaggio sulla base
di documentari e reality sul
giardinaggio (“Mestiere perfetto per chi vuole nascondersi”),
allo spettatore italiano viene automatico accostare Narvel ai
prototipi manzoniani, si chiamino Fra’ Cristoforo o Don Abbondio:
con una maggior predilezione per il primo, giacché Roth sceglie il
percorso ascetico – ossia l’esteriore chiusura d’intenti e
comportamenti – non per omertà ma per sviare turbolenti trascorsi,
complice la Protezione Testimoni. I riprovevoli tatuaggi in evidenza
su tutto il corpo, che potrebbero ricordare quelli di De Niro nelle
spoglie di Max Cady, fungono da ombrosa icona a ribadirne il passato
di omicida al soldo dei suprematisti; si capisce come la variazione
d’assunto funga non solo da nitida lastra, ma da autentica cartina
di tornasole in linea col quadro di tensione razziale, alimentato dai
sostenitori del famigerato (e ormai irrefrenabile) paradigma
trumpiano.
Fa
capolino una certa assonanza col Tony Kaye di American
History X,
essendo Derek Vinyard una creatura cresciuta nell’odio, spinta alla
dottrina neonazista da una fuorviata educazione sentimentale. A
dispetto di Derek, che troppo tardi comprende l’irrimediabile
errore ai danni dell’amato fratello, il pur riluttante Narvel è
posto di fronte a un bivio in cui passato, presente e futuro
convergono drammatici. “Occorre creare un diverso ambito sociale
per ogni film, e farvi muovere un po’ i personaggi”, dichiara
l’autore, “tutto sta nel trovare sempre nuovi fattori”: al di
là della consueta morale, Il
maestro giardiniere è
un apologo esistenziale tematicamente bifronte ove il primordiale
divario Bene-Male si fa duplice allegoria. Sempre a detta del
regista-sceneggiatore, si tratta della dissertazione (definitiva?)
inerente la visione celestiale dell’amore che, in un primo momento,
sembrava concludersi col Collezionista,
rivelandosi presto tassello d’una politique facilmente
riconoscibile. Qui, a sorpresa, la mano di Schrader indulge verso il
fertile terreno del Giardino: archetipo simbolico d’una purezza
destinata a restare incontaminata, indice di nascita e creatività ma
anche di distruzione. Leitmotiv lungo
l’intero assunto, il concetto di “giardino” è introdotto da
subito nelle parole di Narvel, chiarificandone distinzioni e
simmetrie – tre come le note fasi del processo d’espiazione:
quotidianità, scissione, stasi – prima di focalizzare l’obiettivo
sulla varietà che maggiormente interessa la vicenda.
“Il
giardino formale impone alle piante restrizioni geometriche: cerchi,
quadrati, triangoli. È noto anche come giardino formale francese. Il
giardino informale, noto anche come giardino all’inglese, si
diffuse nel XVIII secolo e si attiene alle forme e ai contorni della
natura. Un terzo tipo, il giardino selvatico, è tale solo in
apparenza. Contiene un gran numero apparentemente casuale di piante e
arbusti, nutrimento per gli insetti e la fauna selvatica.”
Oltreché
fede nel futuro – continua l’uomo, citando il botanico John
Bartram – il giardinaggio non solo è la più accessibile tra le
arti: suggerisce la convinzione che le cose accadano secondo un
disegno calcolato (“È già tutto in fieri”),
e il cambiamento giunga a tempo debito (stando a Schrader, non può
non tornare in mente la dottrina calvinista illustrata da George C.
Scott in Hardcore,
prendendo a simbolo un tulipano). Un pittoresco Eden, usualmente
orizzonte precluso: posta in gioco di quei perdono e redenzione
utopici sulla carta (quando non distopici, ripensando ad Affliction)
cui un Narvel da troppo tempo in attesa, oltre ogni previsione,
sceglie d’accedere insieme a Maya senza morti né feriti. La luce
del giorno.
Con somma riluttanza della dispotica Mrs. Haverill,1 datrice
di lavoro, occasionale amante e, fondamentalmente, dea
ex machina convinta
di poter manovrare gli altri a proprio piacimento. “Non vorrei mai
lasciare questo mondo senza dire che vi voglio bene”, sancisce il
cineasta. Gratia
plena e
rinascita. Spiraglio di speranza ch’è unica, incoraggiante
prospettiva in un mare magno di fango e violenza (al contempo
tenuta-sfondo e zona d’interesse, Gracewood significherebbe “bosco
della grazia”). Pur ad imposte condizioni, il reintegro
si configura quale riconquista d’uno spazio – non meno
oggetto di stravolgimento – ma anche d’un tempo nuovo, una volta
per tutte scevro dal giogo del passato e aperto al futuro. Una nota
di speranza una
tantum concessa:
epilogo con cui l’autore, senza rinunciare all’abituale
disincanto, illumina e ravvede il messaggio
(l’irrinunciabile pattern del
diario, presente qui come nei precedenti lavori, è ritenuto un
peso). Tant’è che la premura di Narvel verso Maya, a pensarci,
suona quasi lascito testamentario per le successive generazioni
cinematografiche.
È inevitabile
che l’attenzione abbracci il bizzarro ménage
à trois tra
le figure principali, circa il quale l’inclusione dell’ultima
arrivata ne fa un surrogato filiale verso cui opta lo stagionato
orticultore, preferendola alla (di lui) amante e (di lei) prozia.
Esempio lampante è la cena a tre, che dà modo all’arrogante
padrone di casa di simulare cortesie
per gli ospiti:
mangiando la foglia, umilia l’ospite e, insieme a Narvel, la caccia
dalla tenuta. Altro suggestivo e non casuale indizio, in barba
al politically
correct,
la discrepanza d’età è ulteriore riflesso della società
contemporanea accentuato dall’etnia di Maya. Ma i tempi di American
Gigolo –
ribaditi nei lustri con le dovute eccezioni, da Lo
spacciatore a The
Walker –
sono lontani: il
segreto è (far attenzione nel) camminare al limite. E il film –
ben lo sa Schrader memore di quanto scritto, da lui firmato
sull’argomento – amalgama il raffinato mélo con
l’elegante noir, all’occorrenza spingendosi fino al road
movie. È lungo
i sentieri che costellano Gracewood, percorsi da Narvel, che il
labirinto prende a farsi curiosamente tortuoso quanto il movimento
sinuoso d’un serpente: ancor prima che stacchi e flashback
ostentino gli spettri del protagonista, vittima d’incubi tesi a
sconvolgerne l’assetto (superficialmente) riconquistato, inclusa
una sigaretta al giorno. L’eleganza scenica sta nel contrappuntare
le osservazioni dell’orticultore in ambito floreale, a loro volta
allegorie di demoni concreti, con inserti postmoderni (la rivoltella
che esplode al ralenti su
sfondo nero); il che permette un maggior approfondimento del
personaggio, nel rimirarsi seminudo allo specchio in totale oscurità
(“Ogni seme è una pianta che aspetta d’esser liberata”, e
ancora “Nelle giuste condizioni i semi possono durare all’infinito…
I miei li porto sulla mia pelle tutti i giorni”).
Lo
stesso vale per Maya, a beneficio della quale l’uomo, aiutandola a
uscire dalla tossicodipendenza, s’inerpica lungo un
tragitto-traforo che, nella seconda parte, “sporca” l’abituale
radiosità cromatica con l’ennesima discesa negli abissi, in un
turbinoso percorso di reciproca cura e guarigione (lavacro compreso).
Narvel medesimo parla di guarigione all’inizio, gustando a piedi
scalzi il nudo terriccio, prima di trovarsi ad infrangere una regola
contravvenendo a un ordine sin lì austero; e Gracewood, come ostenta
un dialogo a più voci, altro non è che una comunità di ex
derelitti, ognuno col proprio segreto inconfessabile (e uno,
spacciandolo per una bugia, lo serba il maestro giardiniere).
Accentua l’univoca solitudine del binomio l’impiego di spazi
vuoti (la serra, il drugstore,
le camere d’hotel), scarsamente illuminati e ostentati nella loro
ampia vastità, volti a rimarcare l’emarginazione
d’insegnante-allieva senza consentir loro di colmarla. Un’isola a
parte, ove il duo – eterea composizione floreale nell’atto di
rinascere – si spoglia, esaminandosi e sfiorandosi dolcemente,
nella semi-oscurità d’una stanza al tramonto. Una neo-dimensione,
carnale e spirituale, complice l’incontro con l’altro da sé. “Ho
trovato una vita nei fiori – scrive Narvel – piuttosto
inverosimile”: ecco che l’itinerario, a mo’ d’onirica visione
a occhi aperti, si colora fiabesco mentre la coppia grida gioiosa.
“I semi
dell’amore germogliano, proprio come i semi dell’odio”, e
nessuno impedisce a Maya di esprimere rancoroso disappunto,
trovandosi dinanzi a un riverbero; ma il suo mentore, bastevolmente
esperto, le permette di toccare con mano il prezzo del déjà
vu offrendole
la possibilità di vendicare i torti. Come se Travis Bickle, quasi
mezzo secolo dopo, si portasse appresso Iris per saldare il conto:
Maya, però, sceglie di non far fuoco demandando la cosa a Narvel,
senza spargimenti di sangue. La contraddizione della vita: s’è
impossibile, da un lato, schematizzare la natura, dall’altro
“l’altrui
perdono” – recita una battuta de Il collezionista di carte –
“è così simile al perdono di sé stessi da non potervi scorgere
alcuna differenza”. A
riprova che, se a Schrader si rimprovera di fare lo stesso film, è
il Tempo l’unico signore e padrone del mutamento. Il vero maestro
giardiniere.
Francesco
Saverio Marzaduri
1 Come
spiega il protagonista, oltreché genere o categoria, il cognome
“Roth” è una contrazione del termine rothum (“rosso”).
2 Il
personaggio, con remote velleità d’attrice, vedi caso si chiama
Norma, come la mitica protagonista del capolavoro di Wilder.
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