Capolinea Paradiso: DUMINICĂ LA ORA 6
Capolinea Paradiso: Duminică la ora 6
Fingiamo di non sapere nulla. Di più: di non saperne nulla. Di non avere
informazioni su ciò che la Romania sotto Ceaușescu era, giocoforza,
costretta a vivere all’uscita di questo film. Di non sapere che
dietro la parvenza di una tormentata vicenda d’amore, non priva di
soffiate e tradimenti, si celano precisi echi storici e riferimenti
intertestuali. Se si tralascia questo, e più semplicemente ci si
abbandona alla trama, Duminică
la ora 6 (“Domenica
alle 6”) non appare un film diverso da qualsiasi storia incentrata
su una relazione infelice e senza speranza. Al contrario, l’esordio
registico di Lucian Pintilie suona come un feuilleton
di matrice arrabbiata e ribelle, come da recitazione teatrale degli
interpreti. La mise-en-scène
contempla una
figuratività che personaggi principali e comprimari accentuano con
pochi scarni movimenti, perlopiù d’impulso, costantemente seguiti
da un occhio che, sebbene si conceda le necessarie riprese in
esterno, preferisce tuttavia gli ambienti chiusi e opprimenti. Pure,
di rado accade che i due protagonisti siano lasciati da soli, e
quando ciò avviene, i dialoghi si fanno incerti e privi di
continuità; ugualmente però la tensione è palpabile, allo stesso
modo di quando gli amanti sono in gruppo, in mezzo a tanti o a pochi,
alla mensa o in un café.
A
marcare una tale palpabile tensione è il pattern
diegetico di un sonoro disturbato
(opera di Andrei App), teso a spezzare il poco margine d’intimità
concesso dall’autore demiurgo: un frastuono fatto di rumori
rimbombanti mette a dura prova l’orecchio dello spettatore, di per
sé consapevole di assistere a una vicenda tormentata. Un esempio è
offerto dall’immagine in apertura: lo sguardo mesto e quasi assente
del protagonista Radu è rivolto all’esterno di un finestrino
sgranato, prima che un’indistinta figura gli passi davanti, mentre
le note di un pianoforte non meno invadente coprono l’insopportabile
fracasso (e se ne deduce che la finestra è quella di uno
scompartimento). Il rumore ricomincia subito dopo gli opening
credits, ma già con pochi
elementi Pintilie delinea un quadro in apparenza semplice con una
scelta di tipo verticale, come il titolo del film che si staglia sul
fotogramma. E come l’ascensore che in più occasioni, a mo’ di
fil rouge, scinde la
narrazione in paragrafi, conducendola verso la spiegazione di quel
misterioso dolly verso
il basso, mentre l’obiettivo inquadra ripetutamente la moltitudine
di gente sui terrazzi di un bloc.
E accentua l’imminenza di un risvolto tragico servendosi di un
bianco e nero povero e nitidissimo (a firma di Sergiu Huzum).
Sul
piano della forma è da segnalare la stretta dicotomia tra l’ante
e il post,
sottolineata dal continuo utilizzo di flash e stacchi, che raccorda
un corpo esanime alla ruota di un ascensore, o da lenti movimenti di
macchina, atti a inquadrare i corridoi squallidi e semibui di un
seminterrato stringendo sui dettagli ingigantiti dei numerosi oggetti
che vi si trovano. Pintilie li esibisce quali indizi disseminati di
un giallo, dove la loro funzione, insieme ai salti temporali, è
quella di uno stato d’animo irto di rimorsi che si manifesta in una
narrazione volutamente disordinata. Il fotogramma dell’elevatore fa
sempre capolino negli episodi in cui Anca e Radu sono insieme, il che
permette di comprenderne la funzione d’interrompere un costante
ricordo, che riporta il giovane al presente; quest’ultimo, invece,
è il blocco in cui l’uomo è in compagnia della “traditrice”
Maria, intenta a informarlo sul compito da svolgere. Ai due capitoli,
quelli di Radu con Anca e con Maria, se ne aggiunge un terzo che
riguarda la sola Anca (in cui si ha l’incontro con la famiglia, che
lei non vede da tempo), per la quale il regista concede primissimi
piani o brevi carrelli, commentati dall’ammiccante musichetta di
Radu Căplescu. L’irruzione
dell’agente, altro elemento verticale, porta alla definitiva
divisione fra i protagonisti, alla conclusione e alla spiegazione dei
misteriosi flash.
Il
controverso La ricostruzione è
alle porte. Ma prima che il cineasta di Tarutina conosca
l’ostracismo, personale e artistico, già l’opera d’esordio –
come lo stesso regista conferma – è un sopralluogo volto a far
luce su una relazione contrastata che dà modo a Pintilie di
cimentarsi in uno dei generi meno graditi al regime, e anzi più
invisi: il thriller. Se il film seguente è l’opera perfetta, che
si fregia di aura “maledetta” come Duminică la ora 6,
quest’ultimo è il germe che conduce verso un’indagine
introspettiva, dietro le cui pieghe lenta e inequivocabile trapela la
facciata esterna, nascosta dall’allegoria, di un Paese colto nel
vivo della tensione, dell’oltranzismo. Discorso a raggio che ne La
ricostruzione si sposta su più
larghi registri, sino a comprendere la duplice esegesi dello schema
di Potere, coi propri oscuri disegni, e del cinema quale strumento di
denuncia dietro l’evasione, di realtà travisata e imposta versus
realtà nuda e cruda,
accuratamente omessa.
Duminică
è un lavoro seminale nella
filmografia di Pintilie, ancorché non esente da riconoscibili
tributi alle correnti cinematografiche dell’epoca, cui peraltro il
campo est-europeo offre un contributo non indifferente. Investita
dall’aria nuova del cosiddetto “disgelo” che si propaga nei
paesi del blocco socialista, la Romania si mostra assai sensibile
alla rivoluzione cinematografica dell’immagine che pone particolare
attenzione alla tematica sociale e al rischio di una generazione
senza futuro. In tutti i sensi, Pintilie è il primo cineasta del
Paese a rovesciare i cardini di un sistema conformista, che di climax
d’oppressione non vuole sentir
parlare. Confessatamente influenzato dalle lezioni di Godard,
Truffaut, Resnais e del primo Wajda (e meno dichiaratamente, forse,
del primo Polański), dà un taglio netto alle prassi precedenti, si
serve del cinema come arma personale, fa propria l’ortografia
filmica già rivoluzionata e la muta in qualcosa di originale in un
solco riconoscibile: quello che dal Neorealismo in poi, attraverso le
Nouvelle Vague di mezzo continente, soppianta il formalismo con la
forza del vero.
“Ciò
che ancora oggi in Duminică
la ora 6 non
ha assunto segni di vecchiaia è il modo in cui la camera passa dalla
testimonianza obiettiva (un’età del cinema) all’investigazione
soggettiva (un’altra età). Tutto il film fissa la sua struttura
sui frammenti che cercano di ricostruire lo spazio dell’agonia di
Anca, la protagonista, frammenti di una memoria scoppiata (i
corridoi, come viscere del sottosuolo, la sala delle caldaie, il
cortile interno nel quale si immerge ossessivamente l’ascensore, il
cui movimento finale fa scoprire il cadavere).”1
Duminică
è
un prodotto di transizione, che se da un lato si mostra figlio (delle
mode) del tempo, e non può essere collocabile in altro periodo se
non quello del suo concepimento, dall’altro è un titolo
indispensabile all’interpretazione di Pintilie della realtà, nel
proprio sguardo d’insieme, e della successiva filmografia, non solo
del regista ma della Romania tout
court.
Basterebbe la predilezione mostrata a figure di giovani, sin da
allora una costante del cinema romeno (che le leve del Noul
Val riprenderanno
con
insistenza al momento opportuno), icone di un Paese e di un periodo
che in numerose zone sono al centro di esplosivi mutamenti
socio-culturali, mentre qui non incontrano una trasmutazione
altrettanto immediata. Anche se l’ambientazione è quella del
secondo conflitto mondiale, e la tirannia fascista incombente è un
moloch
impossibile
da debellare, i volti di Radu e Anca sono proiezioni di quelli degli
anni Sessanta, per tacere dei successivi, vittime immolate per le
quali ogni prospetto d’uscita risulta assente. Il letargo è lungo
e interminabile, la spirale di apatia e di quotidiana ripetitività
ha il medesimo sapore del contrappasso che Radu conosce nel
fotogramma conclusivo, contrapposto a quello d’apertura: poco prima
di sfocare, l’obiettivo lo fissa mentre corre a perdifiato verso il
mare, al pari del Doinel lasciato solo coi propri interrogativi,
nell’inutile tentativo di sfuggire agli inseguitori.
Prima
di Pintilie, ci erano arrivati Orwell e Ionesco: la Storia e il Fato
da subito sono terreni che le anime candide non possono evadere;
favolistici viaggi, ipotetiche nozze, pulsioni amorose o autentici
sentimenti umani sono cose che l’individuo non può veramente
concepire. Né la realtà concede parentesi di festa, come mostrano
le violente irruzioni dei militari nella sala da ballo, o nella
mensa, quando Radu teme di essere scoperto per una soffiata.
L’affetto distrae da coraggiosi propositi: il gioco della vita,
nella propria normalità, cancella il desiderio di fermare il sistema. Se poi la realtà impone il non detto per ragioni evidenti
(pure Anca è antifascista come Radu), la Storia, insieme al Male, ci
mette lo zampino torcendosi contro chi vorrebbe ribaltarla. Evocato a
scandire ossessivamente il film, l’ascensore non è che il flusso
di memoria del giovane impegnato nella sua pericolosa missione, che
segna le tappe del proprio infelice ricordo sino ad arenarlo con
l’evento accidentale (l’agonia di Anca) e a riportarlo a una
realtà cui non ci si può (più) sottrarre, e dove è impensabile
tornare indietro. L’amalgama di passato e presente è
immagine-cristallo di quella che i romeni vivono sotto il Conducător,
in cui ciò ch’è stato non dev’essere ripetuto né rammentato,
ma non è molto dissimile dalla nuova condizione, in cui ogni evento
di cambiamento è prontamente sedato.
L’alternanza
tra blocchi narrativi diversi illustra come nella vita non vi sia un
senso né un ordine, ed è questo lo stilema più caratterizzante del
cinema di Pintilie, giacché non c’è un modo vero e proprio di
entrare in argomento nel suo discorso: il tentativo del protagonista,
in preda ai rimorsi, di riprendere la missione si rivela un’ulteriore
beffa del Caso. La simbologia non potrebbe essere più esplicita: il
Paese e i suoi abitanti, oggi come ieri, sono condannati come tanti
criceti prigionieri di una ruota senza sbocchi. E la scelta di volti
giovani, teneri e sprovveduti – chiamati ad assolvere compiti
possibili più sulla carta che negli effetti – ne illustra
l’ingenuità contrapposta alla necessità di una condizione in cui
la durezza è l’unica modalità di sopravvivenza: il rapporto tra
Radu e Anca, pulito e sincero, si accosta a un sistema in cui la
falsità assurge a legge. Molto prima di Nela e Mitică,
del capitano Dumitriu e della moglie Marie-Thérèse o
di Mitou e Norica, i protagonisti di Duminică fanno
i conti con una realtà che rende indistinguibile il falso dal vero,
la ragione dal torto, e ciascuno si ritrova a fare da occasionale ago
della bilancia in un coacervo in cui tutti diffidano di tutti. La
presenza d’interpreti dal volto triste e inquieto, dalla fibra
segnata dalla vita (e dal Caso), dall’atteggiamento accattivante e
dalla comprensibile inquietudine rispecchia quella dei miti ribelli
dell’epoca, di bell’aspetto e tratto ombroso: dando pure per
scontata la memoria del wajdiano Zbigniew Cybulski, come non trovare
in Dan Nuțu somiglianze coi
vari Brando, Jean-Pierre Léaud, Tom Courtenay, Lou Castel? Tanto più
che dietro l’apparenza dell’opera stile Nouvelle Vague,
il debutto di Pintilie dietro la cinepresa è un lavoro perfettamente
coerente con la visione del suo autore, le cui cristalline idee sul
Paese, sulle sue contraddizioni e il suo incerto futuro, emergono già
in tutta la loro nitidezza, facendo di lui il più importante
cronista di bilanci e fallimenti di cui la nazione disponga. Che
l’applicazione Netflix permette di riscoprire in tanti prodotti,
passati e presenti, come nel caso di tantissimo cinema romeno
recente.
Francesco Saverio Marzaduri
1 SILVESTRI,
Silvana, SPAGNOLETTI, Giovanni (a cura di), Lucian
Pintilie,
Bologna, Revolver, 2004. Pag. 24.
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