Storie d’ordinaria mitomania: BOROTALCO

Storie d’ordinaria mitomania: Borotalco 


Tra i giochi che si fanno quando si ama un artista e lo si mitizza, specie uno la cui opera è parte del commento musicale della vita, c’è quello d’individuarne il brano che meglio ne afferri lo sguardo sul mondo. Come se l’eccentricità d’un piccolo uomo alle prese con la quotidianità e il malessere fosse già contenuto in versi e note, a suggerire fughe verso un incerto infinito. Qualcosa di fronte a cui si misurano la memoria generazionale e la sua colonna sonora. L’amore di Carlo Verdone per la musica, condivisa dall’intera generazione del suo momento storico, non è un mistero: lo dimostra una filmografia attraversata da brani, interpreti, autori, col rock che brilla da ogni sfaccettatura, dagli artisti anni Sessanta nel juke-box di Compagni di scuola agli sleghi di Jimi Hendrix di Maledetto il giorno che t’ho incontrato, sino al techno-pop di Sono pazzo di Iris Blond. Ma è in Borotalco che l’excursus generazionale conosce la sua buona stella, inaugurando lavori che indirizzano il macchiettismo della comicità televisiva verso una graduale maturità stilistica: dietro l’apparenza d’un prodotto di transizione, la terza pellicola del regista-interprete romano azzecca un’indovinata contaminazione, con ingredienti così interconnessi tra loro da non poter pensare né provare a districarli. Magicamente, un’ilarità sospesa tra bozzettismo e realismo, a scandire l’irrequietezza d’un momento e un senso di collettivo malumore nel sottobosco giovanile del tempo, si fonde nell’assunto del sogno, concepito quale evasione dal grigiore cui prima o poi tocca tornare, consci ch’è più bello fantasticare a occhi aperti piuttosto che provarci, e fallire. Null’altro che bolle di sapone. 
Scelto e difeso dall’autore con cipiglio, il titolo non potrebbe suonare più esplicativo: la bianca polvere aleggiante nel comfort d’un istante, e con essa il profumo che ne emana e simboleggia un irrinunciabile, ingenuo ottimismo, resta una nuvoletta da cogliere al volo prima che sfumi. In ciò risiede una gioviale volontà di sperare, a costo d’infilarsi in giochi insostenibili: come se Verdone, sette anni prima del film di Weir, già prefigurasse un carpe diem. Il borotalco è biglietto da visita sin dall’incipit, mentre la m.d.p. stringe su dettagli di piedi e gambe dei protagonisti Sergio e Nadia quando, sulle note de L’ultima luna di Lucio Dalla, escono da una stanza da bagno e si vestono, con gesti che ne svelano le componenti caratteriali (piuttosto impacciato lui, spigliata e vivace lei). E sempre il borotalco, insieme alla musica di Dalla, funge da marcatore deittico associando i personaggi, nonostante un montaggio volutamente ingannevole suggerisca che l’appuntamento fissato al telefono sia tra loro due, e occorre invece un’abbondante mezzora d’incroci prima che il destino li faccia incontrare. 
Il fulcro del film con cui Verdone si distanzia dalla confezione episodica (almeno finché il trasformismo non assurge a escamotage per l’evoluzione della figura principale) risiede nell’immanenza del mito, feticcio d’un disagio esistenziale, accentuato dall’abitazione di Nadia tappezzata di foto e poster. E quando costei, durante il colloquio di lavoro presso l’agenzia “I colossi della musica”, risponde “Lucio Dalla” alla domanda sul suo musicista preferito, si capisce quanto la contemplata presenza di Dalla – invisibile, tranne in una documentaristica dissolvenza su un concerto – incomba sul Fato dei personaggi. Questo, ancor prima che la sua ipertestuale firma offra un beffardo controcanto, restituito dall’incipit di Meri Luis nei segmenti in cui Sergio deve vedersela con situazioni a rischio. La musica e le parole di Dalla invitano a un “volar via” mai concretamente fattibile, tanto che di lui pare udirsi la voce fuori dal tendone del palco dove i protagonisti arrivano a serata conclusa. Invero, il fenomeno-Dalla offre la possibilità d’uscire da uno schema predefinito per aspirare a un bagliore di gloria anche se effimero e coatto: non a caso Verdone cavalca l’onda musicale dell’epoca riflettendo sul malcontento di chi, prendendo il mito qual esempio, aspira a un margine di notorietà. E se il buon Carlo, nella realtà, deve lottare affinché un Dalla riluttante acconsenta a lasciare il nome nei credits, nella finzione quasi tutti i personaggi ambiscono a un’utopia, talora spacciandosi per quel che non sono: Nadia desidera incrociare il suo idolo facendo leva su Sergio-Manuel, sedotta dai mendaci aneddoti sulla gente famosa che questi millanta di conoscere, laddove Sergio aspira a quel poco di “carattere e faccia tosta” di cui è privo e di cui Nadia dispone. Lo stesso Manuel Fantoni è solo un bellimbusto fregnacciaro prossimo alla gattabuia, come pure l’amico Marcello (un Christian De Sica ossigenato e già in odor di Vanzina) che s’illude di sfondare in America come showman
Ma in Borotalco – parodia dei fotoromanzi che trova l’equa alchimia nella spigliatezza dei dialoghi e nel crescendo degli equivoci – il gioco mito-ricamo non s’arena alle frottole spacciate per vere e alle reazioni grottesche, come riprova l’accorato omaggio al cinema di genere (a chi alluderebbe il nome del protagonista?) nell’uso di due feticci autentici, Mario Brega e Angelo Infanti, i cui corpi, racconti, battute e tormentoni lungo l’asse realtà-finzione, imprimono un quid in più alla favola. La dimensione cui si aspira è una leggenda che la squallida realtà s’incarica di smontare con echi felliniani – e il maestro fa capolino in un’istantanea. Niente di strano se per Verdone La dolce vita sia il cult prediletto: la commedia italiana, che nella figura di Fantoni rimpasta un mix di Gassman e Nazzari (confermato da un grembiule da cucina con su scritto Gaucho), concilia con una costante, genuina emulazione del prototipo (Sergio che mangia gli spaghetti guardando Albertone in tv), mentre la realtà assimilata non è altrettanto vera. I fantocci crollano, e Sergio e Nadia ne fanno le spese senza sfuggire alla comune noia della vita coniugale. A riaccostarli, un’estrema scintilla onirica trascesa nella sua realizzazione: se per Sergio, novello conte Max della tradizione teatrale-cinematografica, non è previsto bagaglio ipertestuale capace di miscelare il DNA sordiano con l’Allen che sogna d’imitare Bogart, lo è il malinconico incontro con la compagna del cuore, autrice del misterioso brano scritto per il proprio mito, e di cui Sergio-Manuel è il maldestro tramite. A cantare non è Dalla – benché si oda a un certo punto la sua voce – ma non importa: il gioco delle parti non nostre è elemento portante d’ogni fantasia. Mai smettere d’inventare, sognare, sperare. Come il Verdone dell’apocrifo rifacimento Troppo forte e del clip Centocittà – che offre uno spunto già presente in Borotalco, con epilogo a sorpresa – s’incaricherà di ribadire. 

Francesco Saverio Marzaduri

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