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Visualizzazione dei post da novembre, 2019

Enigma in rosso: L’UOMO DEL LABIRINTO

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Enigma in rosso: L’uomo del labirinto   Allo scrittore e criminologo Donato Carrisi piacciono gli enigmi intricati, e più lo sono – pensa – più devono sorprendere. Pago del successo conseguito con La ragazza nella nebbia , che gli ha fruttato il David di Donatello come miglior regista esordiente, riadatta alla seconda prova un altro suo romanzo imbastendo nuovamente una storia di sparizione ai danni di un’adolescente, tal Samantha Andretti, della quale non si sa più niente da quindici anni. La costante ricerca s’interseca coi dubbi e i rimorsi d’un investigatore privato, ancora coi tratti di Toni Servillo, il cui senso di colpa per non essere riuscito a rintracciare i sequestratori della giovane fa pendant con la propria mortale disfunzione cardiaca. Va da sé che il secondo lungometraggio di Carrisi fa uso, giocoforza, d’un assetto costantemente frammentato, costituito da tasselli a catena d’un rebus indecifrabile, mentre l’indagine à la Dürrenmatt, modello assai caro

LAKBAYAN

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Lakbayan  Lav Diaz, Brillante Mendoza e Kidlat Tahimik u niscono i propri talenti per un lavoro corale, sullo stato delle cose nelle odierne Filippine: dai lenti passi di tre uomini attraverso un selvaggio dispiegarsi in bianco e nero si passa a un’atroce critica dell’ élite su una marcia di protesta, in for ma di tragica rievocazione, per concludere con un documentario sugli incontri di un regista, a bordo d’un camper lungo il Paese, con alcuni artisti locali. I tre shorts che compongono Lakbayan (“Viaggio”) sono rappresentativi degli approcci diversi delle rispettive firme nel restituire arte politicamente eversiva; non nuovi al tema del viaggio, anche in questo caso i tre autori convergono verso una duplice destinazione: l’effettivo movimento geografico attraverso lo spazio reale cui segue un itinerario più interiore, che nel film si trasla in viaggio nel cuore della nazione, stemperato da discrepanti punti di vista. Unificando il tocco dilatato di Diaz, il realismo soci

WATCH ME KILL

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Watch Me Kill  Se l’educazione cinematografica di Tyrone Acierto ripaga della visione del suo Watch Me Kill , benché non sempre lo script viaggi alle stesse altezze, l’impressione è di un western stilisticamente distante dalle disordinate realtà sugli omicidi compiuti nel Paese. Girato in un tradizionale 16mm, l’aspetto démodé conferisce al film una certa irregolarità, laddove un dialogo volutamente povero fomenta la capacità di ricostruire un mosaico fortemente debitore di modelli quali Peckinpah e Tarantino.  Francesco Saverio Marzaduri

Quando non si trova (più) la via di casa: TUTTO IL MIO FOLLE AMORE

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Quando non si trova (più) la via di casa: Tutto il mio folle amore  “Le cose, per il cinema italiano, devono andare davvero maluccio se nemmeno un premio Oscar riesce a strappare unanimi consensi grazie al suo nuovo film”. Così il compianto Giovanni Grazzini, nel recensire Sud di Gabriele Salvatores, disaminava in poche battute la crisi d’una produzione in cui l’ambizione, coniugata ad un progressismo già a corto di fiato, non teneva il passo della denuncia all’origine, e il coraggio delle intenzioni poco poteva per nobilitarne l’esito. Se si considera quanto tempo e quanta acqua sotto i ponti siano trascorsi da quel 1993, suona paradossale che la situazione non solo non sia mutata ma paia sguazzare nel proprio torpore creativo, abbarbicata a stilemi ormai artefatti in cui pretesi voli d’autore, piccati per squarci poetici, si riducono a raffazzonati velleitarismi. Coronamento d’una filmografia iniziata trentasei anni prima, Tutto il mio folle amore , diciottesimo lungometragg