Quello che le donne non si dicono: QUALCOSA DI NUOVO

Quello che le donne non si dicono: Qualcosa di nuovo 


Quando Paola Cortellesi, cantante jazz sulla quarantina, intona Donna di nessuno di Buscaglione sui titoli di testa – prima di bacchettare da rigida moralista l’amica e coetanea Micaela Ramazzotti – sorge naturale e lecita una constatazione: curioso che nell’ultimo lustro la produzione cinematografica nostrana abbia sfornato, tra alti e bassi, una serie di quadretti femminili volti a tratteggiare la donna in una condizione di orgogliosa rivalsa esistenziale o di doveroso altruismo, fattori in ambo i casi necessari a proclamarne l’emancipazione. Ritagli che individuano un comune punto di forza nell’impiego costante dei medesimi volti (Margherita Buy, Sabrina Ferilli, Valeria Golino, Laura Morante, la stessa Ramazzotti, e via elencando). È così che dalla faticosa quotidianità di Per amor vostro o dal rapporto saffico di Io e lei, passando per il desiderio d’indipendenza di Assolo o dalla maternità forzata di Nemiche per la pelle, lo spettatore conosce l’itinerario, stravagante e doloroso, del fortunato La pazza gioia. Per terminare, rimanendo in tema di fughe concrete e spirituali, con l’inquietudine adolescenziale di Questi giorni, e il coraggio di ricominciare daccapo, lontano dalla violenza e prossimo all’amicizia, de La vita possibile.  
In tale ambito va iscritta la dodicesima fatica di Cristina Comencini, da anni specializzata in segmenti, non sempre apprezzabili, in cui copioso margine è concesso alla donna nel contesto che la rappresenta. Pure, nel parafrasare a mo’ di ossimoro il titolo di questo prodotto, il fil rouge che assembra i citati titoli in un quadro d’insieme si propone come qualcosa di nuovo, valutabile come un aggiornamento di paradigmi e spunti ampiamente collaudati altrove. Tratta da una pièce di successo della stessa Comencini, come già per Due partite a firma Enzo Monteleone, la vicenda è un atto unico cinematografico (scritto a sei mani, oltreché dalla Cortellesi e dalla regista, dalla figlia di questa, Giulia Calenda) che mette in scena un parallelo tra due sguardi antitetici sull’amore: Lucia, ancora scottata da un matrimonio finito male, è decisa a non ricadere nell’errore, laddove Maria, madre single ottimista ed estroversa, è incapace di tenere un uomo a lungo, perennemente disponibile, per nascondere le proprie incertezze, a qualsiasi incontro occasionale le capiti. Il Caso naturalmente ci mette lo zampino dato che la prima, durante l’ennesima visita all’amica, s’imbatte in Luca (Eduardo Valdarnini), un ragazzino poco più che diciottenne e alla vigilia dell’esame di maturità, finito nel letto di Maria dopo una sbornia in discoteca. Forte è lo sbigottimento, nell’usuale impianto della commedia degli equivoci, e mentre l’imberbe Luca, convinto si tratti di Maria, crede di aver fatto l’amore con Lucia, quest’ultima – un po’ per paura e un po’ per curiosità – glielo lascia credere; alla vera Maria, che sopraggiunge poco dopo, non resta che mangiare la foglia e calarsi suo malgrado nei panni della coetanea. 
L’una all’insaputa dell’altra intrecciano una relazione col potenziale deus ex machina, per l’algida Lucia fatta d’incontri amorosi teneri e selvaggi, e per Maria – onde riparare al danno di aver dormito con un toy boy intrisa di comunicazione e intellettualismi (proprio lei, fin troppo attenta al “linguaggio del corpo”). Si fa presto a intuire che la spontaneità di un giovane immaturo sarà sufficiente a smontare egoismi e contraddizioni, insicurezze e labilità della sfera adulta, rivelando le metà nascoste di due anime che solo in apparenza sono ciò che sembrano. È in sostanza un’educazione sentimentale alla rovescia: proprio i fattori complementari di quest’indiretto ménage à trois consentono, a Luca come allo spettatore, di far chiarezza su due tipologie femminili meno mature del loro partner. E solo l’inattesa rivelazione conclusiva, nel classico coup de théâtre, permette di comprendere che entrambe, nonostante la benevolenza, non si sono mai confessate l’una all’altra per davvero, pur sensibili e bisognose d’affetto, e sono prossime al traguardo della maturità quando una banale frattura di Luca scioglie gli enigmi e accomuna i tre nella tenerezza. Anche il ragazzino è un incompreso, vessato da un’ingombrante figura materna (di cui si ode solo la voce) e incerto se dedicarsi ad un legame più “normale” con una coetanea. 
L’operina, dunque, pone lo sguardo per l’ennesima volta sul divario generazionale, che senza scomodare modelli quali Harold e Maude (inappropriatamente citato da altri), sembra più deporre a favore della leva matura che di quella odierna. Ma prima di mostrarcene gli esiti la Comencini sceglie, come nel suo stile, un percorso aneddotico tra commedia sociale e satira (sentimentale) dei costumi, che non si contenta di essere uno sketch intimista atto a scavare nelle fragilità psicologiche delle figure al centro (dove peraltro si colgono i momenti più sinceri), e ricorre alla teatralità fin troppo invadente della messinscena. Persino torna alla mente l’Arlecchino goldoniano nel disegno di Luca, a cui entrambe le milf si abbandonano a confessione, seguito da un occhio filmico che talvolta lo mostra nella medesima scena prima con l’una e poi con l’altra. Come non mancano, da parte delle donne, gli impacci e gli imbarazzi che l’impiccio fa sorgere: è il caso di Maria che, in compagnia di Luca, deve fare buon viso a un cattivo gioco delle parti, e con sorrisetti di circostanza saluta le amiche che la sorprendono con un teenager, al quale, “recitando” la cantante Lucia, fa credere siano sue ammiratrici. 
Pur concedendo troppo ai gigionismi e alla macchietta (e la Ramazzotti appare meno sobria che ne La pazza gioia), la coppia protagonista riserva parentesi che talvolta vanno a segno: si pensi a Maria in ascensore, inseguita da un malintenzionato per le scale à la Brando nel film di Bertolucci, salvata in extremis da una divertita, imperturbabile Lucia. Eppure la voglia di stimolare la risata a ogni incrocio, soprattutto nella prima parte, denuncia presto l’artificiosità degli episodi, colpa di una recitazione che si fa teatrale quando si vorrebbe naturale, e di un rapido montaggio che non rinuncia ai virtuosismi (quando i nodi vengono al pettine e il reagente a contatto Luca, esuberante, si sfoga di fronte alle esterrefatte protagoniste, l’obiettivo si fa nervoso e concitato). È evidente il modello ipertestuale delle sophisticated comedies statunitensi o delle pochade francesi: ma ciò che là innescava il tocco magico e le rendeva brillanti non è automaticamente ripetibile nelle imitazioni italiane, e le battute al fulmicotone, non sempre irresistibili, di cui il film è costellato, a malapena camuffano l’incertezza dell’impianto narrativo circa le soluzioni da adottare. 
Qualcosa di nuovo si aggiunge, senza arricchirlo in modo particolare, al campionario registico della Comencini, iniziato più di trent’anni fa con Zoo, al cui centro stava un’adolescente con problemi familiari. Qui, di nuovo, i membri della famiglia non mancano, benché non siano presenti in scena (non solo la madre di Luca, ma anche i figli di Maria): quanto a dire che l’intero quadretto, quasi la parodia di uno psicodramma bergmaniano, si presenta come lo specchio di due prototipi in doverosa vacanza da sé stesse e dai propri complessi. Forse anche per rendere omaggio allo scomparso Bowie, la regista lascia che le note di Absolute Beginners scavino dolcemente nell’anima di Lucia, e rivelino aspetti che la rivalutano allo spettatore: un segmento intimo e delicato, complementare al bisogno di euforia delle due donne, rimarcata dal loro esuberante siparietto in chiusura quando, riconciliate con la vita, intonano Girls Just Want to Have Fun in adattamento jazz. 

Francesco Saverio Marzaduri 

Commenti

Post popolari in questo blog

Questione di sguardi

Rovineremo la festa: THE PALACE

Oltre ogni ragionevole dubbio: la parola a Friedkin