Prima del calcio d’inizio
Prima del calcio d’inizio
Iniziata, come lo storico Watergate, con la scoperta di intercettazioni telefoniche compromettenti, la bufera che una dozzina d’anni fa
investì il mondo del calcio finì per coinvolgere, giorno dopo
giorno, presidenti e dirigenti, allenatori e commissari tecnici,
arbitri e guardalinee, singoli calciatori e squadre intere,
moviolisti e giornalisti sportivi. Sopiti,
per quanto mai realmente superati, gli scandali di Moggiopoli e di
Morattopoli, e a ridosso dall’inizio dei Mondiali in Russia, lo
sport nazionale per antonomasia appare – oggi come allora, se non
di più – lo specchio deformato del cosiddetto Belpaese nei propri
aspetti più indecorosi, il suo esatto riverbero.
Ma
è altrettanto vero che, nella produzione cinematografica di casa
nostra, il calcio non ha goduto di caratterizzazioni particolarmente
profonde, o comunque tali da vedersi riconosciute peculiari qualità
poetiche: quelle a cui il calcio, inteso come gioco prima ancora che
sport, avrebbe potuto facilmente rinviare se smaccata opulenza e
sdoganata violenza non ne avessero inquinato lo spirito. Il cinema
italiano non ha quasi mai mostrato nei confronti del calcio quel
pathos,
quell’attenzione narrativa, in grado di metterne in risalto lo
spirito e la poesia, riscontrabili invece in molti esempi offerti
dalla cinematografia straniera.
Includendo
anche i passi falsi – biografie romanzate i cui esiti sono
schiacciati dal peso delle ambizioni all’origine (Best
di Mary
McGuckian, dedicato alla mitica ala sinistra nordirlandese) o allegre
goliardie di difficile esportazione (Shaolin
Soccer di
Stephen Chow) – il pallone non manca quasi mai di essere
rappresentato in tutto il proprio agonistico lirismo. A ribadirlo
basterebbero prodotti che sembrano volersi collegare a tendenze
culturali di qualche decennio passato (il
Free Cinema,
per dirne uno), ma dalle connotazioni ancora vivacemente attuali (si
pensi a My
Name Is Joe di
Ken Loach), talvolta non esenti da ambizioni documentaristiche
(Hooligans
di
Philip Davis), biografici (come i film dedicati al brasiliano
Garrincha, all’argentino Maradona o al francese Cantona) o legati a
opere letterarie di successo (come Febbre
a 90° di
David Evans, da un romanzo di Nick Hornby).
Il
calcio è servito anche da sfondo per commedie garbate dai messaggi
edificanti ed ecumenici (Sognando
Beckham di
Gurinder Chadha). Senza trascurare come, in passato, questo sport
fosse poco più che un fattore secondario da cui partire per analisi
psicologiche di chi il calcio lo fa, lo pratica, lo vive in prima
persona, lo sente come una seconda pelle. Spunti interpretabili, in
un certo senso, come un approfondimento sulla solitudine dell’atleta
(Prima
del calcio di rigore di
Wim Wenders, il cui soggetto reca la firma di Peter Handke).
Senza
essere obbligatoriamente mostrato, il calcio può essere presente
anche in modo velato, come un momento di temporanea serenità dentro
il racconto di un paese in macerie: se occorre affrontare lo sfacelo
e la conseguente ricostruzione, non ci si lascia sfuggire però
l’occasione di vedere una partita diffusa da qualche schermo tivù
nei paraggi (E
la vita continua di
Abbas Kiarostami). Così come la messa in onda di un match può
essere occasione di fuga per un bambino da un carcere minorile, senza
dare nell’occhio (Salaam
Bombay! di
Mira Nair).
Se
poi la memoria del cinefilo va a ritroso nel tempo, può imbattersi
nella primissima opera dedicata all’argomento (il cortometraggio
Harry the Footballer di
Lewin Fitzhamon, del 1911). Mentre l’aspetto agonistico del calcio
giocato, ostentato in una chiave ingenuamente ottimista e magari
siglato da un lieto fine in cui la vittoria è catartico riscatto,
lascia anche alcune pagine memorabili: chi non ricorda la rovesciata
di Pelé, o i ralenti
sui calciatori Osvaldo Ardiles e
Bobby Moore, in quello che resta probabilmente il film più famoso
sul calcio, Fuga per la
vittoria di John Huston?
Qui, il gesto atletico appare in tutta la propria poesia, come se
ciascuna azione dei giocatori di volta in volta inquadrati fosse il
singolo frammento di una coreografia.
Come
in un’altra pellicola cui l’americano Huston s’ispira,
l’ingiustamente dimenticato Due
tempi all’inferno dell’ungherese
Zoltán Fábri, il calcio è anche eclatante metafora di vita,
praticato da uomini capaci di azioni indimenticabili nella loro
immediatezza, che di esso serbano un’idea che – prima di essere
filosofia – è saggezza, barriera contro un mondo sordido
attraversato da demagogie capaci di annientare la dignità e il
valore di questi uomini. La partita è occasione di riscatto, il
recupero di un orgoglio (e la fuga, soprattutto nel primo caso, il
premio). Una lezione, questa, che sembra calzare a pennello a un
mondo del calcio – quello attuale – ridotto a un contesto di
opulenta quanto dubbia moralità.
Salvo
qualche sporadica eccezione, il calcio in Italia quasi mai ha goduto
di narrazioni filmiche in grado di incarnare tali idee e suggestioni.
A parte qualche fiction televisiva (sul Grande Torino, per esempio),
si tratta al massimo di farse ridanciane (su tutte, Eccezzziunale…
veramente o
L’allenatore
nel pallone),
e qualche raro spunto d’autore nel mezzo (Ultimo
minuto di
Pupi Avati e L’uomo
in più di
Paolo Sorrentino), ma perlopiù il calcio funge da sfondo pretestuoso
o da indicatore di vicende. Eppure, esattamente come nel calcio
giocato, lungi da sordide macchinazioni, conflitti d’interessi o
“prodezze” teppistiche, basterebbe così poco per spiegare quanto
il pallone conti nelle nostre vite ancor prima che nel nostro
costume. Volenti o nolenti.
Francesco
Saverio Marzaduri
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