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Visualizzazione dei post da febbraio, 2019

Oscar: le “nomination” Made in Italy che nessuno ricorda

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Oscar: le nomination Made in Italy che nessuno ricorda  È sempre un azzardo scrivere di un tema come l’Oscar. Non basterebbero le migliori aneddotiche, seminate in novantun anni di cerimonia, a dire della contraddizione in termini (e in aspettative) che l’ambito premio ha suscitato nel corso del tempo. La sin troppo florida casistica è irta di titoli di pregio non ripagati da tale riconoscimento, e benché costituisca un errore non considerare che l’Academy Award – com’è tradizione di ogni festival – renda omaggio a opere ugualmente considerevoli per una ragione o per l’altra, è il gusto soggettivo di uno spettatore a poter decidere se un film e chi vi prende parte siano degni del tributo. Sono il tempo e la sua storia a determinare il reale valore di un’opera cinematografica, lungo periodi in cui mutamenti e contraddizioni di assortita tipologia fungono da imparziali esaminatori. Per contro, sono majors e battage pubblicitari a spingere il pedale per assegnare la statuetta, ed è

L’ombra del dubbio: ZONA D’OMBRA – UNA SCOMODA VERITÀ

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L ’ ombra del dubbio: Zona d ’ ombra – Una scomoda verità  C’è del buono. Con tale definizione l’autorevole rivista “Segnocinema” usava indicare, nei propri pagellini, quelle pellicole dotate di un’impronta suggestiva, o comunque interessante, nonostante la fragilità dell’esito. Nel caso in esame, verrebbe da dire “c’è del buono” dopo la visione di un prodotto come Zona d’ombra – Una scomoda verità , che le anteprime, nell’inverno 2016, annunciavano come un atipico thriller, senza venir meno a risvolti indagatori e pervaso, qua e là, di venature fantapolitiche.  Beninteso: la visione del film diretto da Peter Landesman non delude le aspettative, anche se solo in parte. Sfaccettature fantapolitiche non ne reca, ma un’indagine sì: e la vera novità in un simile prodotto, benché non sia chiaro se si tratti di un difetto o di una qualità, consiste nel non saper bene in che direzione condurre un intreccio thrilling a sfondo sportivo. Si rischia persino qualche difficoltà quando il

Quella sporca ultima meta: DUNKIRK

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Quella sporca ultima meta: Dunkirk  I tamtam mediatici sono duri a morire. A testimoniarlo, negli ultimi tempi, il dubbio se l’ultimo film di Sofia Coppola fosse degno o meno del suo tentativo di rifare Don Siegel o, cosa più probabile, di prenderlo solo in prestito per proseguire un discorso personale. E più intenso è stato il coro di voci per il sequel di Blade Runner : quanto e se fedele allo spirito, solo il tempo lo dirà. Decimo lungometraggio dell’inglese Christopher Nolan, sull’epica evacuazione militare dell’ultimo conflitto mondiale, Dunkirk è un magniloquente spettacolo, almeno se lo si guarda come puro intrattenimento. Dopodiché, si può condividere l’opinione di chi afferma che l’autore di Inception e di Interstellar abbia dato il suo meglio in precedenti occasioni, e in quest’ultimo lavoro si sceglie un paradigma narrativo che, nell’ambito della ricostruzione storica, non si discosta dai noti cliché di genere bellico. Né qualche voce illustre della critica, da par

Non (solo) Neorealismo: A CIAMBRA

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Non (solo) Neorealismo: A Ciambra    Quando A Ciambra fu presentato al “Sedicicorto Film Festival” di quattro anni fa, trovammo che quanto ci mostrava, il percorso d’iniziazione forzata di un ragazzino rom, ricordava certo Visconti e pure gli olvidados di Buñuel, una poetica dell’infanzia cara a Truffaut su uno sfondo di delinquenza alla Gomorra . Nell’arco d’una mezz’oretta, l’italo-americano Jonas Carpignano condensava la vicenda del piccolo Pio Amato in una struttura a blocchi, dove a una prima parte notturna e concitata ne seguiva una seconda più dilatata. L’alienante violenza, strumento necessario a Pio per sopravvivere nel degrado, lasciava il posto a un’introspezione psicologica accentuata da un frequente impiego di primi piani.   Identico stile si ritrova nel suo secondo lungometraggio, premiato alla Croisette come miglior film europeo alla “Quinzaine des Réalizateurs”, che consente al giovane autore di tornare nella stessa zona calabrese di Gioia Tauro – in gergo, appun

Tutto quel fracasso: CANE MANGIA CANE

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Tutto quel fracasso: Cane mangia cane  Non è mai comodo far la conta dei difetti in un film, specie se reca la firma di Paul Schrader. Eppure, lungo i suoi novantré minuti, si ha l’impressione che il romanzo di Edward Bunker , riadattato da Matthew Wilder , conti meno dell’impatto visionario. Complice il montaggio schizofrenico a firma Benjamin Rodriguez Jr., che segue uno straniante modus operandi e alterna stacchi vorticosi a tempi dilatati, tipici dell’estetica trascendentale del cineasta.   Non molto interessa dell’ ennesimo colpo, destinato a finir male, di tre criminali gaglioffi bramosi di sistemarsi. A spiazzare sono le scelte estetiche, anche azzardate, in una mise - en - scène che non nasconde vezzi tarantiniani ( Bunker era Mr. Blue ne Le iene …), pur non replicandone l’ironia, o di soluzioni splatter scioccanti solo in superficie. Nell’era del digitale lo spettatore sorride nel seguire la scia di una pallottola e il suo esasperante percorso prima di vederne co

Canzoni stonate: SONG TO SONG

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Canzoni stonate: Song to Song  Una ragione dovrà esserci se Song to Song , nono lungometraggio di Terrence Malick, non ha riscosso larghi consensi al botteghino, benché la presenza di nomi importanti – Michael Fassbender, Ryan Gosling, Rooney Mara, Natalie Portman, Cate Blanchett – potesse far presumere il contrario. Si aggiunga che, come altre volte è capitato (pensiamo solo a Knight of Cups , uscito pochi mesi prima) , quest’ultimo lavoro ha ancor più ristretto la cerchia di un cineasta noto per la sua enigmatica invisibilità, la cui dichiarata scelta di relegarsi ai margini del System fa il paio con una cifra stilistica spiazzante – fotogrammi flou ai limiti del patinato, impiego reiterante ed ossessivo di voci off , uso della cinepresa asimmetrico e destabilizzante. Stilemi di un autore ormai focalizzato su un’insistita ricerca del mistico , che non teme più di azzardare con altezze vertiginose o accesi contrasti cromatici, fattori iconografici tesi a disorientare lo

Conflitto di classe: IL CASO KERENES

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Conflitto di classe: Il caso Kerenes  Pozitia copilului , recita il titolo originale. Che significa “posizione”, o punto di vista, “del figlio”. E il figlio in oggetto, tale Barbu (Bogdan Dumitrache), è da iscriversi nella ricca casistica di giovani irrequieti che del cinema romeno degli ultimi vent’anni è tema tra i più assidui. Ma, a differenza dei figli “post-dicembristi”, questo Barbu presenta più che altro parentele coi giovani di una classe sociale più privilegiata, quella abbozzata in alcuni illustri esempi (si pensi al fidanzato della protagonista di 4 mesi, 3 settimane e 2 giorni ), ma sempre accennata senza supplementi d’indagine. E anziché un dolente segmento storico, a gravare sulla consapevolezza del giovane è un rapporto d’odio, sfociante in un feroce conflitto, con la figura materna.   Il rancore lo attanaglia, lo avvelena al punto da compromettere la relazione con la famiglia che si è costruito (la compagna Carmen e la figlioletta di lei, avuta da precedente