Un sogno chiamato felicità: CITTÀ AMARA
Un sogno chiamato felicità: Città amara
“Non m’importa chi abbia ragione e chi torto
non proverò a capire
lascia
che il diavolo si prenda il domani
Signore,
stanotte ho bisogno di un amico
Il
passato ormai è alle spalle
e
il futuro non lo vediamo
ed
è triste essere soli
aiutami
a superare la notte...”
KRIS
KRISTOFFERSON
Dissolvenze
incrociate introducono la città di Stockton, California; edifici e
vetrine, insegne e cartelli segnaletici, gente che cammina per strada
e anziani seduti con le mani in tasca o su lattine di birra; c’è
una coppia che discute, un cliente con aria dimessa dal barbiere: la
gente del posto.
In
una manciata di secondi illuminati dalla fotografia di Conrad Hall, e
sulle note della chitarra di Kris Kristofferson, il sessantaseienne
John Huston conduce lo spettatore in un milieu
che, ironizzando sull’originale titolo-antifrasi del film, è mille
miglia lontano da un El Dorado o da una Terra Promessa ove attendere
la concretizzazione dell’American
Dream.
All’esterno il sole, prima che la m.d.p. si focalizzi su una
squallida stanza d’hotel: qui, un uomo è sorpreso a letto con lo
sguardo perso tra lenzuola spremicciate, reduce da una notte di
bisboccia – probabilmente l’ennesima, come suggerisce la
fiaschetta mezza vuota di whisky sul comò.
Sigaretta
in bocca, l’uomo s’alza un po’ di malavoglia, in cerca d’un
accendino tra scartoffie, disordine e altre bottigliette vuote. Si
risiede, guarda fuori, poi si veste e i credits
d’apertura
(solo allora) lo
accompagnano tra spogli corridoi verso l’uscita. Ma non sa dove
andare: dopo qualche esitazione rientra per recuperare una borsa,
mentre la camera indugia su dettagli sordidi, cassetti rotti e un
cesto strabordante di barattoli, poi esce di scena.
Nel
frattempo scopriamo che il film è tratto da un romanzo di Leonard
Gardner, sui boxeur professionisti di terz’ordine che solo
debolmente comprendono come nessuno, tra essi, riuscirà mai a
guadagnare tempo: privo dei soliti cliché,
il testo brucia d’oscuro pessimismo mentre i personaggi escogitano
un’esistenza rabida, consapevoli dell’inevitabile fallimento.
Un
incipit tra i più toccanti della New Hollywood prelude a un assunto
che ben si adatta al climax,
dolente e pessimista, della produzione a stelle e strisce i cui
apologhi di dropout
e miserie hanno sostituito lo sfarzo e il mendacio delle magne
confezioni. Città
amara non
fa eccezione, e che sia diretto da un maestro di quel cinema, alla
sua ventisettesima fatica, suggerisce che tale operazione segni una
sorta di spartiacque tra il Prima e il Dopo. Lo stretto dualismo
mito-leggenda, permeato di gloria dei seguenti L’uomo
dai sette capestri
e L’uomo
che volle farsi re,
qui assume connotazioni distanti anni luce da eroici bagliori: non è
un caso che Città
amara sia
anche il film che Huston dirige negli States una decina d’anni dopo
il non meno crepuscolare Gli
spostati.
Ancora una volta il cerchio si stringe: il film, scrive Franco La
Polla, è la precisa, obsoleta allegoria del pugilato quale
“referente della lotta quotidiana dei reietti, degli emarginati,
dei dimenticati, degli anonimi, mostrando fra l’altro uno spaccato
generazionale con intenzioni che rivelano subito la loro natura
sociale e morale, e d’altra parte pone estrema attenzione
all’ambiente di questo quadro e alla sua indifferente estraneità”.
Gli
ultimi bagliori del crepuscolo cedono il passo a palestre semivuote,
dove la presenza dei principali personaggi non basta a colmare lo
spazio: minuscole pedine in cerca d’utopico riscatto, consci in
partenza di tale illusione, Billy Tully (Stacy Keach), l’uomo visto
all’inizio, conosce il più giovane Ernie Munger (Jeff Bridges),
s’allena con lui e lo invita a sferrare colpi a due riprese.
“Ragazzo mio, hai stoffa: se te lo dico io puoi crederci, non
sciupare gli anni migliori”, gli dice. Ma Billy è ormai logoro e
vicino ai trenta, e da un pezzo fuori dal giro; non s’allena da un
anno e lamenta un muscolo stirato. Privo di esperienze sul ring,
Ernie fa pugilato per divertirsi e fare un po’ di moto; quando
rivela a Tully di averlo visto combattere, questi gli chiede “E ho
vinto?”, ma la risposta negativa del ragazzo non lo stupisce.
Come
per Gardner, la nobile arte è argilla tra le mani d’un cineasta
dall’esistenza e dalla carriera avventurose (studente universitario
praticò il pugilato dilettantistico e vinse un campionato), ma in
Città amara la
nitidissima eco hemingwayana fa il paio, osserva Kezich, con una
pietà da lettore di Dostoevskij. Ulteriore riprova si ha quando
Billy è al bancone d’un bar avvolto in una semioscurità da quadro
di Hopper, con alcuni avventori al biliardo e una fila al bancone;
intristito sorseggia un whisky, mentre gli si avvicinano Oma (Susan
Tyrrell), una nevrotica debosciata che sbraita sempre su tutto, e il
suo partner. Il protagonista accenna alla possibilità di far di
Ernie una promessa, riconoscendo in lui la grinta di cui egli stesso
disponeva in passato: ma né Oma né gli avventori paiono granché
interessati a ciò che biascica. Gli “urrà” sono gridati senza
entusiasmo, e la donna strilla le proprie lamentele senza curarsi
dell’attenzione che richiama. Lo sguardo è sempre documentaristico
(Huston non scorda di aver realizzato penetranti report
di guerra), addirittura neorealista, solcato da facce del tempo che
restituiscono l’esattezza d’una realtà sofferente come i match
sul quadrato.
Dietro
raccomandazione di Billy, Ernie si reca per un provino dal suo
trainer Ruben
Luna (il Nicholas Colasanto che in tema pugilistico ritroveremo in
Toro
scatenato,
nel ruolo di Tommy Como): questi e il suo secondo gli raccontano
aneddoti su Tully, sostenendo di averne fatto un campione, prima che
un breve disgraziato matrimonio e conseguenti insuccessi lo
portassero al declino. Constatato il talento del giovane,
il trainer pensa che
potrebbe diventare un buon peso massimo (“Well, maybe he can, if he
just listen to me and let me put everything I know into him”,
confessa a letto alla moglie insonnolita) anche perché, una volta
tanto, ha trovato un bianco: pugili neri ce ne sono troppi; ma la
moglie continua a ronfare. Fanciulleschi onirismi o discorsi sulla
gloria – addirittura si parla di portare gli atleti in Inghilterra
– girano a vuoto come i cazzotti: nessuno prende sul serio nessuno,
l’apatia ha preso il sopravvento. Pare niente, ma dietro fotogrammi
edificati su una mise-en-scène
classica
e semplice è racchiuso il significato di tutto il film: l’esistenza
non ha senso, ci s’arrampica sugli specchi all’ineludibile prezzo
della solitudine. Per sbarcare il lunario, raggranellare qualcosa e
illudersi di riacquistare forma, come Tully e più tardi anche Ernie,
si tira a campare raccogliendo verdura insieme a vecchi e a povera
gente: eppure, nonostante la fatica, sul campo assolato della San
Joaquin Valley sembrerebbe scorgersi l’unico filo di speranza atto
a restituire alla vita il gramo valore rimasto. Ci si contenta di
poco, vivere è una lotta. La saggezza nel sangue.
Ridotti
a dicerie fini a sé stesse, i ricordi non sopperiscono le difficoltà
del quotidiano trantran, che si tratti di rimuovere un’auto da una
pozza fangosa sotto il diluvio o sposare una ragazza incinta.
Né
basta la cattiveria o la fiducia in sé stessi contemplata da un
giovane boxeur di colore, e spacciarsi per pugili irlandesi è una
stronzata.
Ci
s’illude di aver la meglio sull’avversario quando l’esito è
poi un sonoro KO tecnico; e tutti i giovani agonisti di Luna,
nonostante i suoi vani auspici, non possono che incassare una
sconfitta dietro l’altra. Ernie finisce con lo sposarsi presto come
già Tully, comprendendo quanto effimero sia il sogno (“Well, I won
some, lost some”, dirà all’amico celando la verità). Far
l’amore è più stimolante che incassare colpi: l’esordio sul
ring non importa molto. Nessuno dice o fa davvero ciò che pensa, né
è come dice di essere (“Questo ragazzo è flaccido dentro”,
rivela Billy al giovane nel finale, contrariamente a quanto affermato
all’inizio); benché palese sia l’infelicità, ostinati non si
vuole capitolare. Il resto sono cicalecci per nascondere il
fallimento: ma l’esistenza impone di non arrendersi, mai, anche nel
più grigio dei mondi possibili. Tertium
non datur.
Si
vagheggia d’imbattersi in una donna, anche in una sciroccata quale
Oma (il cui compagno è in galera), o trovare un sodale per non esser
soli (non a caso, in sottofondo fa capolino You’ve
Got a Friend).
“Puoi contare su di me”, ripete Billy uscendo dal tetro locale con Oma, entrambi brilli e sorridenti.
Una felicità effimera, che suona più come coazione a ripetere: la convivenza è una non-vita a base di tabacco, bevute, sciatteria, rimpianti (a un certo punto, la donna fa indossare all’uomo la giacca dell’ex partner).
Disastroso
è il tentativo di preparare la cena – culminante nella bottiglia
di ketchup rotta da Tully nel disperato tentativo di far mangiare una
bistecca a Oma – e inutile espellere la rabbia battendo la testa
contro un juke-box.
Mai
come in Città
amara la
white trash è
restituita in modo altrettanto verace, siamo lontanissimi dal
riscatto del grigiore à
la
Rocky: un quid
che solo in Clint Eastwood si riscontrerà nella commovente vicenda
di Maggie Fitzgerald, il cui rapporto paterno-filiale non poco deve a
quello tra Billy ed Ernie (o tra Ruben e i propri atleti).
Non
v’è discrepanza tra vincere o bere prima d’un incontro. L’ultimo
round è una sfida con ciò che resta dell’esistenza nei rancidi
bilanci. L’avversario da affrontare è un messicano, ostico ma
anche lui avanti con gli anni, e tanto logoro da pisciar sangue
quando orina: il match, nello strepitio della folla, è un patetico
show di cariatidi, che Tully vince ai punti ma con zero entusiasmo.
Il
messicano è l’ultimo a uscire dall’arena, mentre le luci si
spengono poco a poco: un viale del tramonto in piena regola.
Il
compenso, per tale estrema (coatta) vittoria, ammonta a cento
pidocchiosi dollari. Il déjà
vu persiste:
allontanandosi imprecante da Ruben, Billy ricorda d’essersi
tagliato nel medesimo punto in cui si ferì nella penultima sfida.
“Neanche
parti e già finisci su un binario morto”, è una delle ultime
battute di Tully mentre prende un caffè con Ernie, lapidario
aforisma di un’opera ch’è lo straziante canto del cigno di
un’America sorpassata. “Forse lui è felice”, ribatte il più
giovane rivolto al vecchio e sorridente barista, “o forse lo siamo
tutti”.
Dopodiché
Billy si gira e uno zoom
lo cattura con lo sguardo rivolto verso una fila di anziani
avventori, bianchi e neri, seduti a giocare, che nonostante
un’esistenza dimessa paiono più giovani di lui.
“Facciamo
ancora due chiacchiere, ok?” supplica Billy, mentre la camera resta
immobile sugli appaiati protagonisti, intenti a bere con lo sguardo
nel vuoto, senza che nessuno dei due apra bocca. Gli ultimi “falchi
della notte”, testimoni del Prima e del Poi: identico il risultato.
Non resterà che aspettare i bambini d’un altro sogno chiamato
Florida, nell’omonimo film di Sean Baker, pronti a sfuggire agli
egoismi del mondo adulto per concretizzare una nuova chimera: correre
a Disney World, il mondo della fantasia. Viva la poetica della
nostalgia!
Francesco Saverio Marzaduri
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