Contro il logorio del Paddington moderno: TED 2
Contro il logorio del Paddington moderno: Ted 2
Parafrasando una battuta del film, non siamo analfabeti in materia di cultura pop
da non saper valutare la seconda puntata con lo sboccato orsacchiotto
protagonista. E se squadra che vince non si cambia (stessa troupe,
stesso regista, stesso cast), a chi è cresciuto nel ricordo delle
produzioni disneyane, e talora della volontà di queste ultime di
prendere e prendersi in giro, non può non tornare in mente la sitcom
E vissero infelici per sempre:
dietro la superficie dell’American Way of Life
tutta zucchero e ottimismo, si ostentava spudorata la voglia di
parodiare il politically correct
di operazioni simili. Ad un siffatto, disfunzionale alveo domestico,
si aggiungeva un pupazzo di pezza nelle sembianze di coniglio, Mr.
Floppy, con il quale solo il padre di famiglia, schizofrenico,
riusciva a conversare scambiando opinioni sui più disparati
argomenti, cui Mr. Floppy sovente ribatteva con feroci critiche.
È
con questo spirito che occorre interpretare Ted 2,
come già il precedente episodio: la posta, eclatante, è quella di
confezionare un prodotto per famiglie che faccia strame del
saccarosio adattandolo a tempi e gusti correnti. Poco interessa –
pare suggerire l’autore Seth MacFarlane – che l’umorismo e
l’assurdo delle situazioni si traducano in gag bassoventrali, in
battutacce o in turpiloquio; tanto, e da un bel pezzo ce ne siamo
accorti anche in Italia, quanto vediamo e assimiliamo, impartito dal
mezzo mediatico e dalle tecnologie messe a disposizione (su tutti,
l’uso morboso e parossistico del web), procurano più danni di una
parolaccia, assumendo connotazioni deleterie anche più censurabili.
Nemmeno
a dirlo, esattamente come nelle pellicole per famiglie formato Disney
con interpreti in carne ed ossa, la storia è poco più d’un
pretesto che inizia e si conclude alla stregua di una favola (con
tanto di voce narrante): deciso a dare un figlio alla collega ex
tossicomane e salvare dalla crisi il ménage,
l’orsetto Ted, cassiere di un supermercato, ricorre alla
fecondazione artificiale, che l’amico John, fresco di divorzio, è
ben disposto a concedergli. Il problema è che il pupazzo, essendo un
giocattolo, non può godere dei diritti di cui beneficiano gli
individui, per cui perde il posto di lavoro; su tutte le furie,
convinto di essere un “normale” (e un cittadino americano), Ted
porta addirittura la causa in tribunale. Nel frattempo, il malvagio
Donny della prima puntata – riciclatosi addetto alle pulizie in
un’azienda di giocattoli in odore di Spectre – è intenzionato a
scoprire cosa permetta al nemico orso di parlare e provare sentimenti
umani, e medita di riappropriarsene contando sul fatto che la giuria
non gli darà alcun credito...
Nell’intreccio,
situazioni paradossali e figure al limite del bislacco si alternano
al buffonesco, alla provocazione, alla scurrilità, mescolando la gag
più devastante con quella più teppistica. E nell’inseparabile
amicizia fra Ted e John non mancano le occasioni di bravata verso il
prossimo e di scherzo, anche tra loro, di cattivo gusto. Non solo
Disney, o la serie dei film di Ernesto, finisce nelle maglie dello
sfottò: di rimbalzo, lo humour corrosivo degli autori non manca di
fare rancida ironia sugli avvenimenti di cronaca più tragici (l’11
settembre, ad esempio, ma pure un riferimento alla strage che ha
colpito “Charlie Hebdo”)
o i personaggi dello spettacolo, nella fattispecie comici (la
scomparsa di Robin Williams, le molestie sessuali di Bill Cosby). Dal
canto suo, MacFarlane può permettersi l’auto-assoluzione
schernendo sé stesso e le proprie dichiarate posizioni pro-gay (come
trapela da un frizzo di Ted durante il processo). E condannando la
volgarità di certi show televisivi (il processo è occasione per un
patetico sketch con un guitto in costume a impersonare
l’orsacchiotto), il regista sembra voler fare la parodia di una
parodia.
Eppure,
si ha l’impressione che l’operina sia un hamburger infarcito di
tanto cinema demenziale veduto e masticato nell’ultimo trentennio,
che non trascura la propria devozione allo screwball
giacché le gag, soprattutto
nella prima parte, si susseguono incalzanti. Ingrediente inevitabile,
la parodia di film famosi (da The Elephant Man a
Chi ha incastrato Roger Rabbit?,
da Toro scatenato a
Rocky, a Guerre
stellari), ove il gusto della
citazione, frammisto alla satira dei costumi a stelle e strisce, si
sposa col suo rovescio: le migliori sono quelle da Jurassic
Park (i protagonisti estasiati
in una radura con gigantesche piante di cannabis al
posto dei dinosauri) e da Pulp Fiction
(il bagliore della misteriosa valigetta è sostituito dal membro di
Tom Brady, dal quale John e Ted tentano furtivamente di rilevare il
seme). Come il coloratissimo incipit coreografico sui titoli di
testa, stile Vincente Minnelli, con l’orso in smoking che danza
sulla torta nuziale.
C’è
un affettuoso richiamo ai maestri della commedia anni Ottanta: a
cominciare dal compianto John Hughes, del quale vi sono due
citazioni, Breakfast Club
e Un biglietto in due (sulle
identiche note di Mess Around di
Ray Charles, Ted ripete la guida disastrosa di John Candy e la gag
della sigaretta, con esiti altrettanto catastrofici). Ancora, il
piglio surreale à la Zucker-Abrahams-Zucker
o il tocco registico alla Woody Allen nel riprendere un personaggio
in primo piano con altri due in throwaway (mentre
Samantha è al telefono, John e l’orso si accapigliano per una
birra). E, doveroso, il tributo al Landis de I tre amigos!
nel segmento della sosta forzata
in un casale di campagna, quando i protagonisti teneramente si
abbandonano alle note della chitarra di Samantha, di lì a poco
raggiunti dagli animali del bosco proprio come nei cartoon
disneyani.
Si
fa della malinconica ironia verso il format televisivo
(il villain Donny è
ancora Giovanni Ribisi, con parrucchino a boccoli biondi in memoria
de I miei due papà),
che tira in ballo Radici,
Supercar (la suoneria del
cellulare di John) e il Patrick Stewart di Star Trek nel
ruolo di voce fuoricampo, e verso la pletora di serial
di ambiente giudiziario (Law & Order,
Shark) e pellicole a
tema, da Philadelphia a
Il cliente: nel
personaggio di Samantha – dedita alla marijuana e ignorante sui
temi new age – si
può cogliere una vaga eco della Reggie Love di Grisham. E il giudice
che fraternizza con Ted, nello scoprirne l’innata vena soul
durante la deposizione, è di
colore come Harry Roosevelt.
Ted
2, si diceva, è la riproposta
di un certo cinema comico – concepito per gradi, a sprezzo di linee
precise – per un pubblico di teenager voglioso di rumoreggiare in
sala e far casino con gli amici, imbevuto di televisione ed emittenti
musicali satellitari, fissato con gli
smartphone e gli iPod
coi quali scattare foto da postare sulle applicazioni social
network (aspetto che nel film,
non a caso, si trasla in una frecciatina-tormentone fra i due
protagonisti). L’operazione, che sa di popcorn e di McDonald’s, è
volutamente junk,
scombiccherata, usa e getta. E benché non tutto sia irresistibile né
di prima mano, per chi desidera tornare adolescente ci si abbandona
con piacere all’irriverenza, alla volontà di gabellare tutti e
tutto – compresa la controcultura e l’estetica del videoclip,
ineludibili modelli di riferimento. In questo senso la scommessa
riesce, il divertimento è garantito. Dal creatore di American
Dad e I Griffin,
non si deve pretendere di più: a contare è la dissacrazione di usi,
costumi, contraddizioni made in USA
(e di MacFarlane è la voce di Ted e di Pete Griffin, mentre a
prestarla ad entrambi nell’edizione italiana è Mino Caprio).
Si
coglie con affetto l’omaggio al carnevale pop dei fumetti nella
scena dell’esposizione all’emporio, dove ha luogo una resa dei
conti da action movie,
in cui Ted si camuffa da peluche in mezzo ad altri uguali per
sfuggire al nemico e quest’ultimo, viceversa, da Tartaruga Ninja
per non essere smascherato. E dove si rincontra un imbolsito Sam
Jones, il Flash Gordon di
De Laurentiis ormai dimenticato, che si concede un’autoironica
parentesi neanche troppo divertente. Tuttavia, la seconda parte perde
di ritmo e – errore imperdonabile – finisce per essere esca del
medesimo bersaglio che si vuole denigrare. Citofonato è l’escamotage
del protagonista che, per
salvare Ted, rischia la vita e il cui coma è nuova occasione di
beffa, benché l’episodio dia modo allo spettatore di scoprire
emozioni e sentimenti anche nel più sboccato degli orsacchiotti. E
stratagemmi fini a sé stessi appaiono la presenza di un Liam Neeson
titubante di fronte alla scelta di acquistare una confezione di
cereali (si consiglia di non abbandonare la sala dopo i titoli di
coda), o di un Morgan Freeman principe del foro che declama un
discorso ebbro di retorico ottimismo, come nel prefinale de Il
falò delle vanità. Né possono
contro una volgarità che, quand’anche non indispensabile, si
rivela la carta più giocata (la gag rovinosa dei flaconi di sperma
addosso a John o il calumet fallico fumato dai protagonisti). Come e
più che in un prodotto dei fratelli Farrelly, o in una qualunque
odierna commedia blockbuster.
Francesco Saverio Marzaduri
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