L’ABBIAMO FATTA GROSSA: una buona stella?
L’abbiamo fatta grossa: una buona stella?
In film dal congegno collaudato ma dall’impianto comico usurato,
perlopiù non esenti da gag di grana grossa, ci si può pure
imbattere in impreviste denunce a mo’ di monito sottotraccia. Si
parla frequentemente di faciloneria in certe commedie di costume e a
Carlo Verdone – che del paradosso dietro il bozzettismo ha fatto la
propria cifra artistica per oltre un trentennio – la si contesta
spesso. Basti pensare al titolo precedente questo, Sotto
una buona stella. Non sempre s’indovina il mutare dei
tempi, non sempre ci si adatta, e la volontà di un cambiamento
artistico è fattore troppo rischioso perché il pubblico,
conquistato nel tempo, sia disposto a seguire il nuovo percorso senza
perplessità.
Arrivato
alla soglia dei 65, Verdone, in L’abbiamo
fatta grossa,
ribadisce i suoi usuali e perdonabili difetti: sempre encomiabile è
il desiderio, maturo, di aggiornare la propria tipologia di commedia,
mostrare i
nuovi tic e le nuove contraddizioni del Paese qui e adesso,
con spazio a figure e psicologie incapaci di adattarsi alla realtà,
relegate ai margini e schiacciate, prima pedine e poi capri
espiatori. I
gesti comici sono i medesimi della filmografia verdoniana,
come pure le urla e le parolacce. Verdone è autore che non vuole
deludere il pubblico e opta per schemi e situazioni risapute e
familiari agli aficionados,
benché
la rappresentazione del reale sia meno graffiante del solito.
A confermarlo sono gli echi e i rimandi ai suoi film più amati,
seminati più per furbo escamotage
che per nostalgia: il detective di mezza tacca Merlino, ex
carabiniere, vive con la zia aterosclerotica come il Rolando
di Acqua
e sapone
viveva con la nonna, e nel corso di una cena galante, narrando di
improbabili avventure gialle, ripesca il piglio sbruffone e gaglioffo
di Sergio-Manuel
Fantoni.
Giunto
al suo venticinquesimo lungometraggio,
Verdone conferma qualità comiche di razza e una più misurata
compostezza attoriale, in linea con l’età, non soddisfatto di un
climax
in cui la risata, vuoi sardonica vuoi irriverente, non può più
essere la stessa di prima. Nel tempo in cui televisione, web e
tormentoni hanno sostituito la formula della commedia più gloriosa,
e il fenomeno
Checco Zalone miete incassi da primato,
appare lontana l’epoca dei successi al botteghino frequente nel
ventennio Ottanta-Novanta. Consapevole di questo, Verdone opta per un
meccanismo che già dai trailer rimanda alle pochade
francesi:
le nevrosi e gli impacci dei due protagonisti, indotti a una
collaborazione forzata che ne muta le solitarie esistenze in una
sincera amicizia, sprizzano da equivoci a girandola, situazioni a
incastro, incontri-scontri con figurine che si reiterano senza freni.
Non manca una parentesi da gangster
movie
che sembra condurre il film verso un
epilogo favolista,
avviandolo invece a una
conclusione amara.
Una cimice posta sotto il tavolo di un ristorante, una misteriosa
valigetta
à
la Tarantino,
un inatteso coup
de théâtre,
sono alcuni degli espedienti di un intreccio in cui l’equivoco è
il vero protagonista: fattore-chiave di segmenti ora sguaiati (lo
sketch nel centro estetico per poter asciugare il denaro), ora
esilaranti (l’ospedale, che qui funge da anello di congiunzione tra
personaggi e comprimari).
Il
risultato è discontinuo, sbilanciato in parti non del tutto omogenee
dove la seconda è più divertente della prima. Dietro il paradosso,
tuttavia, si coglie la lettura della realtà renziana e dei suoi
rancidi effetti, e lo spettatore vi riconosce la
contraddizione di un Paese in cui la supposta produttività resta
inafferrabile:
una presunta banconota da 500 euro, miraggio per due squattrinati
personaggi, ugualmente si rivela un impaccio per acquistare un gelato
a due bambini o per concedersi piccoli lussi. A
farne le spese sono i pesci piccoli,
mentre chi ne beneficia, come in un classico di Frank
Capra
o di Preston
Sturges
(o in una favola di Mark
Twain
al contrario), sono i soliti squali, che si dichiarano garanti del
beneficio e il malaffare consente di stare al Potere. Solo una
pernacchia è l’estrema e liberatoria risposta per chi da tale
abietta logica si è fatto fregare: se a Verdone non si possono
chiedere tinte forti, la morale tutto sommato onesta è ostentata lì.
È il finale a rammentare che autentica è la realtà che concepisce
situazioni e tipologie come quelle descritte. E il filologo
della comicità
Verdone, come già in Io,
loro e Lara,
può permettersi di riadattare Totò,
riprendendo La
banda degli onesti nel
persistente tentativo di spacciare una banconota fasulla, rinunciando
all’epilogo consolatorio e finto-edificante: il moralismo che
abbraccia la famiglia qui è lontano, e, per quanto un evergreen
sempre
vincente, il pernacchio in stile Eduardo è un’antica lezione di
commedia per rispondere al presente. E, non meno rilevante, il
coraggioso
passo verso una vecchiaia artistica
in cui sogni e borotalchi non sono più la risposta. Traendo
ispirazione da Sciascia,
farla grossa non è più un errore involontario ma una presa di
posizione.
Francesco Saverio Marzaduri
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