La parola alle dipendenti: 7 MINUTI
La parola alle dipendenti: 7 minuti
I 7 minuti indicati dal titolo sono il tempo detratto dalla pausa lavoro di un gruppo
composto da undici operaie, chiamate a decidere se accettare la
proposta di una nuova proprietà, francese, dell’azienda tessile di
provincia in cui prestano servizio, alcune di loro da molti anni. È,
questo, un riassunto sufficiente alla tredicesima fatica registica di
Michele Placido per ostentare, nella confezione kammerspiel,
un intento di denuncia in veste di apologo al femminile, sostenuto da
undici diverse tipologie. Il risultato va a sommarsi al recente
campionario di film dedicato alla donna dal cinema italiano, sullo
sfondo di un Paese i cui contrasti paiono non conciliarsi più. Si
aggiunga che il canovaccio, come già per Qualcosa
di nuovo
di Cristina Comencini, reca una derivazione teatrale in cui
l’occasione di dibattito funge da innesco per un variegato
confronto caratteriale. E subito vien da dire che la pensata del
teatro filmato – ispirata qui da un episodio di cronaca accaduto
quattro anni prima in Francia – diventa un valido espediente per la
mise-en-scène
di un problema che, mescolando l’utile col dilettevole, cattura lo
spettatore imponendogli la riflessione nell’arco di un’ora e
mezza.
Questa
volta però, l’emancipazione femminile altre volte affrontata cede
il posto a una questione corale inerente la forza-lavoro, condannata
a sempre più grame prospettive, e chi vi presta servizio con la
forza della disperazione, tanto più se si tratta di una donna. Di
fronte all’assortito campionario umano che 7 minuti mette
in mostra, si potrebbe ripensare all’indagine psicologica, non meno
dolorosa, da Placido condotta ventiquattro anni prima nell’inquieto
alveo adolescenziale de Le amiche del cuore.
E la coralità che nell’incensato Romanzo criminale si
tramutava in serrato gioco di caratteri, entro un impianto d’azione
memore del poliziesco anni Settanta, in 7 minuti si
tramuta nel suo rovescio: l’azione, tangibile, è misurabile in
sottrazione, negli sguardi e negli intenti, nelle vedute e nelle
caratterizzazioni di volti femminili chiamati a prendere una
decisione delicata e determinante per tutte. Qualcosa di simile
all’evergreen giudiziario
scritto da Reginald Rose per la televisione, che conobbe l’esordio
al cinema di Sidney Lumet e anni dopo, tra alti e bassi, due
rifacimenti a firma William Friedkin e Nikita Michalkov (con
quest’ultimo, Placido condivide la fugace parentesi delle
dipendenti che, in smaniosa attesa di sapere se l’azienda chiuderà,
giocano a pallacanestro come i giurati nella palestra).
Messi
da parte gli stucchevoli intimismi di coppia nell’infelice La
scelta, tra le quattro ristrette
mura di uno sgabuzzino sono chiuse le undici operaie al centro,
chiamate a decidere delle poche ore concesse loro per dare un voto
atto a condizionare le proprie esistenze e quelle di numerose
colleghe. A una seconda metà assai poco rinunciataria dei citati
prototipi, ne prelude una prima in cui un montaggio di tipo
documentaristico illustra il privato di ciascuna donna: madri di
famiglia – qualcuna con figlia-collega in imminente gravidanza –
o mogli con mariti disoccupati a carico, e giovani irrequiete che
sfogano nella boxe e nell’ostentazione dei tatuaggi la tempra
sanguigna e ribelle. La decisione inizialmente unanime, come ovvio, è
ripensata e rimessa in discussione in un confronto incalzante che
sfocia nel gioco al massacro, omnia contra omnes,
dove i dilemmi personali fanno il paio coi pregiudizi verso le etnie
(tacciate di essere detentrici di priorità rispetto ai lavoratori
italiani). E chi, cauto senza essere domo, sino alla fine tiene le
fila con la logica della sobrietà e del buonsenso, costantemente
invitando a ragionare prima di decidere, risulta essere il punto di
congiunzione su cui grava il peso dello scrutinio decisivo. Troppo
poco impiegata dal grande schermo, Ottavia Piccolo si rivela la
migliore del mazzo, interpretando con consumato mestiere chi, dalla
parte dell’etica, è indotta a fare il passo indietro e
allontanarsi dalla seduta.
Ancora
una volta, sulla base dell’omonima pièce di
Stefano Massini e con la complicità dello sceneggiatore Toni Trupia,
Placido obbliga lo spettatore a un confronto esistenziale, personale
e psicologico, in cui dolenti verità, registrate dalle pieghe del
reale quotidiano, affiorino dai volti e dalle parole dei personaggi
(come, del resto, emergeva in titoli altalenanti quali Un
viaggio chiamato amore,
Vallanzasca – Gli angeli del male o
l’autobiografico Il grande sogno).
Per di più entro un insolito contesto di denuncia, dove la
macchinazione di chi manovra il capitale umano si fa concreto
scenario, cui non occorrono orpelli né allegorie, ossimori o
sarcasmi. E se il parallelo più confacente è con Mi piace
lavorare di Francesca Comencini
o con l’altrettanto recente Sole, cuore, amore di
Daniele Vicari, amari disegni femminili in un mondo del lavoro dalle
regole azzerate, non siamo distanti nemmeno da La felicità
è un sistema complesso: il
titolo, ormai un piccolo monito, non camuffava le amarezze di un
ordigno teso ad alimentare la propria presenza sulla pelle degli
altri, nella fattispecie la fascia più giovane e sprovveduta,
ricorrendo al vergognoso mobbing.
Se
l’operina di Zanasi era una favola destinata a un epilogo
ottimista, nonostante non vi fossero cattivi da sgominare con
l’identica elementarità delle fiabe, 7
minuti non
gioca la stessa carta, pur mantenendo intatto l’identico livore
verso la legge del mercato. Ed è curioso che il film di Placido sia
giunto nelle sale italiane con un mese di anticipo sul referendum
costituzionale, insieme a opere come quelle di Loach o di Rodrigo
Plá, film
makers i
cui lavori scavano di petto nel sottosuolo della burocrazia
impiegatizia, sedicente compagna di lotta ma solo a parole. Nel mare
magno di ritratti di donna offerti da Placido, ciascuna col proprio
drammatico retroterra, gli stereotipi della vittima della violenza
domestica o della disabile, resa tale dalle negligenze del posto, si
fanno prototipi necessari per la radiografia di un presente che
restituisca il problema nella più realistica oggettività. E che il
progetto sia fortemente sentito, lo conferma la conduzione familiare
vagamente memore di Cassavetes: la figlia Violante nel ruolo della
coriacea paraplegica, il piccolo ruolo dello stesso Placido come
dirigente dell’azienda insieme ai fratelli Donato e Gerardo Amato.
La dice lunga, anzi, sull’impostazione professionale di un cineasta
che quasi mai è riuscito ad essere autore tout
court:
come già capitato in precedenti occasioni, anche a 7
minuti si
potrebbe obiettare un didascalismo di fondo data la complessità di
un tema che, nonostante l’impegno di un cast in costante rischio di
maniera, è il vero protagonista, ma che in altre mani avrebbe forse
avuto l’eversiva carica di un cinema sociale ora scomparso come
certi suoi maestri. In verità, l’osservatore difficilmente è
preso al laccio dalle quotidianità delle undici eroine, raffigurate
da interpreti che visibilmente “recitano” senza reale autenticità
(inclusa l’esordiente Fiorella Mannoia), indotte a urlare ed
inveire tra loro, quando non mettersi le mani addosso, affinché il
voto finale non gravi sul loro avvenire a beneficio del profitto
altrui.
Non
mancano sbavature né soluzioni didascaliche, e forzose, come nella
gestione di alcuni passaggi (tra le operaie extracomunitarie, quella
africana apparenta 7
minuti al
debutto registico di Placido, Pummarò),
dove l’insistito utilizzo del ralenti
e
l’accompagnamento musicale di Paolo Buonvino, nei segmenti di
maggior intensità, conducono a un effetto destabilizzante, non
classificabile. Si tratta dei soliti e ormai noti difetti di manico
del regista, dichiarati quasi come rivendicati stilemi: condivisibile
o meno, è la cifra stilistica di un artigiano il cui paradigma di
semplicità all’origine, nonostante la veemenza nella sostanza, è
il pregio che conferisce onestà (intellettuale?) a piccoli progetti
d’inchiesta che forse valgono più di epidermiche, rischiose
ambizioni à
la
Tornatore.
E nei serrati interni in cui si consuma la suspense
di
questo dramma da camera, dietro la scorza del nobile intento, è
lecito individuare un’altra “pura formalità”: una concreta
risposta a un astratto, multiforme e non evitabile quesito.
Francesco
Saverio Marzaduri
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