Heartbreak Linda
Heartbreak Linda
Quando a Venezia, diciott’anni fa, mi capitò d’intervistare gli autori di Rosy-Fingered Dawn
– Un film su Terrence Malick,
presentato nella sezione “Nuovi Territori”, una delle domande
riguardava un volto, quello di Linda Manz, che solo il cineasta
statunitense avrebbe carpito con un’intensità e una luminosità
mai più ripetutesi e, di fatto, senza pari. Come pochissime altre,
la Manz non rientrava nella serie di testimonianze documentate nel
lavoro, a causa – mi fu spiegato – di un atteggiamento schivo e
ben poco in sintonia, ormai, con l’apparato cinematografico, che
alla richiesta di partecipare la indusse a rifiutare l’offerta. Ma
suona ugualmente strano, benché comprensibile, che la breve
filmografia della compianta Linda, scomparsa il 14 agosto a soli
cinquantotto anni, contempli una decina di altre prove, escludendo
le due più note, spartite tra grande e piccolo schermo, e non
esattamente memorabili. Come sempre in questi casi, nonostante il
commiato, l’occasione torna buona per ricordare quel viso più
unico che raro, da monello (la cui suscitata inquietudine potrebbe,
chissà, motivarsi con la scelta ribelle di una sessualità
differente), in altri titoli che esemplarmente si addicono al suo
possibile temperamento: a un anelito “adulto” di bruciare in
fretta le tappe, senza per questo (poter) rinunciare a una riposta
dolcezza, a quell’angelicata sensibilità che le amarezze
dell’esistenza segnano in partenza, senza offrire seconde
opportunità. Ecco, allora, che in The
Wanderers – I nuovi guerrieri,
opera sesta d’un cineasta, Philip Kaufman, ancora in attesa di
attenta rivalutazione, la diciottenne Linda è Peewee (“Pesciolina”,
nell’edizione italiana), spia protetta dei Fordham Baldies, la
banda avversa a quella del titolo, nella periferia newyorchese: un
ruolo di comprimaria già perfettamente adeguato in un revival
violento, e non privo di malinconia, su un conflitto tra gang di
quartiere ai tempi dell’assassinio Kennedy. Linda è qui la
benvoluta figlioccia d’un clan a suo modo protettivo, nonostante
perenni scontri e tensioni, e non privo di valori (benché
trasgressivi) che il sistema sociale vigente ghettizza, e
ulteriormente sacrifica con l’imminente chiamata alle armi. E già
in tale apologo la Manz esibisce l’aria di chi, al netto d’una
sbruffoneria di superficie, si trova a fare i conti con una
solitudine e un ineludibile smarrimento senza radici e senza sbocchi.
Le note di Bob Dylan fungono da cornice sin troppo didascalica, nella
misura in cui l’ossessiva necrofilia per Elvis, l’anno seguente,
tallonano la Cebe Barnes di Out
of the Blue (il
cui titolo canadese, No
Looking Back,
di gran lunga la spunta sull’insulso Snack
bar blues con
cui il mercato nostrano dell’home
video
l’ha lanciato da noi), e dove alla passione per il “King” si
uniscono la morbosa adorazione per il babbo, pregiudicato e
potenzialmente incestuoso, e per tutto ciò che ha a che fare col
punk.
Un altro gigante della musica nordamericana, Neil Young, fa da
cornice disperata, priva di scampo e redenzione, alla terza regia di
Dennis Hopper – qui anche interprete, nelle vesti del padre – che
fotografa una classe sociale irredimibilmente allo sbando: una white
trash
d’impressionante realismo che sembra non preoccuparsi affatto di
evadere dalla propria squallida e degradata condizione. L’amore non
esiste, qui; la tossicodipendenza è un naturale modus
operandi
per esorcizzare il malessere, come il concedersi al tizio di turno;
l’abuso sessuale è uno sfogo, di routine quanto la bottiglia o la
siringa. Nella tornata di derelitti e poveri cristi (l’occupazione
del protagonista può esser solo quella di smaltire rifiuti), anime
in pena che s’aggirano in un cerchio di dannazione, Cebe è una
creatura non meno impura: il prosieguo, e il rovescio, di Peewee la
cui innocenza è rapidamente sopperita dall’emulazione di miti
bruciati, propri di epoche bruciate, simboli di un periodo
sorpassato da tempo, privati del look
anni Cinquanta e spentisi quanto gli easy
rider
in cerca di libertà. A dispetto dei prototipi, in risposta a
un’American
Way of Life
di rettitudine vieppiù ingannevole, il suo nichilismo protestatario,
conciliante con l’irregolarità, la spinge a un estremo gesto a
spese d’una normalità di facciata: rassegnato esito a una
condizione di desolante prigionia per la quale l’Heartbreak
Hotel –
dalla giovane canticchiato ripetutamente – è l’unica soluzione
concepibile. Nulla di sorprendente che, in mezzo a partecipazioni
trascurabili, il milieu
in cui la Manz mostra congeniale agiatezza sia la confezione indie,
benché non si faccia a meno di pensare con rammarico che il cinema
avrebbe potuto (e dovuto) utilizzarne la physique
con maggior accentuazione. Sicché la madre del piccolo Solomon in
Gummo,
lungometraggio d’esordio del californiano Harmony Korine, giunge
quale ideale coronamento d’una figura in linea con assunti ispirati
da una realtà di miseria umana, irrinunciabile epicentro tra rovine
paesaggistiche e incolpevoli vittime; e un documentarismo
parossistico ai limiti dell’insostenibile – specie nei confronti
di handicap e animali – accentua la registrazione del reale senza
impiego di sceneggiatura. E per quanto l’ultima apparizione, lo
stesso anno, abbia luogo in un anomalo thriller firmato David
Fincher, The
Game – Nessuna regola,
si tratta comunque d’un tiepido ricordo rispetto al
personaggio-narratore con cui Malick, folgorato da quella figura, la
fece debuttare quattro lustri prima, e in ogni caso – con quello di
Cebe – il più adatto alla sua indole di tenera dropout.
Non per nulla conservando il proprio nome anagrafico, il volto della
mit(olog)ica Linda si consegna nell’Olimpo delle giovani promesse –
peraltro non mantenute, e non per causa sua – restituendo il
ritratto di un’adolescente subito travolta dagli eventi e dalle
colpe dei “grandi”, la cui prematura crescita, interiore
soprattutto, è segnata dalla tragedia di affetti mancati e mancanti,
e da un repentino senso di responsabilità col quale l’innocenza
tiene il passo a fatica, nel bel mezzo d’una pittorica
incontaminata natura destinata ad avvampare in un biblico rogo
(peraltro, magistralmente reso dal colore di Néstor Almendros).
Intuibile perché le citate personificazioni si leggano quale
riverbero dell’attrice, tutt’altro che lontane dalla verità: non
avendo mai conosciuto il padre, il che le fa attraversare un’infanzia
turbolenta e un tormentato rapporto con la madre – di cui mantiene
il cognome – Linda fugge ripetutamente di casa e frequenta numerose
scuole (“Per molto tempo ho chiesto alla gente di adottarmi”,
racconta alla rivista “People”); ma è proprio la madre, una
donna delle pulizie del World Trade Center, ad insistere perché la
figlia frequenti l’accademia dello spettacolo che le insegni
recitazione e danza (“Aveva un’idea di me nel cinema”). Ne I
giorni del cielo,
la sua sofferenza è abbandonata al proprio destino: ma non per
questo s’arena di fronte a decisioni altrui e – completa
sconosciuta, senza meta e direzione, come una pietra che rotola –
opta per esperienze magari più fortuite alla totale mercé del Fato.
“Non sapeva dove stava andando, né quello che avrebbe fatto”,
sono le ultime parole della ragazzina relative a un’amica sbandata
come lei, con cui s’allontana. Tra i più toccanti del cinema
d’ogni tempo, tale epilogo assurge a epitaffio per congedare
un’interprete-simbolo d’un momento transitorio, destinato a
svanire nell’oblio e nel dolore della vita adulta (il secondogenito
Christopher, spirato due anni prima di lei); ma dietro la cui rude
scorza, nonostante una sorte avversa, si cela una vulnerabilità
(vogliosa di restar) fanciulla, inasprita dall’esistenza ma alla
quale, se dai un fiore – per usare le sue parole – magari lo
conserva per sempre.
Francesco Saverio Marzaduri
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