La Storia infinita: EST – DITTATURA LAST MINUTE
La
Storia infinita: Est
– Dittatura Last Minute
Se
non sapessimo che Est
– Dittatura Last Minute,
secondo lungometraggio di Antonio Pisu, è un film italiano, lo
scambieremmo per un prodotto romeno indipendentemente dalla vicenda
che fotografa: una fetta di tragica storia del Paese – la Romania
sotto Ceaușescu,
due mesi prima del Ventun Dicembre – filtrata dagli occhi di tre
cesenati sui ventiquattro anni, indirettamente vissuta sulla propria
pelle. Si può presumere che concepire un tale spunto non sarebbe
altrettanto fattibile senza l’aiuto di maestranze, interpreti,
comprimari locali. S’aggiunga che il racconto cui è ispirato,
l’autobiografico Addio
Ceaușescu
firmato
da Maurizio Paganelli e Andrea Riceputi, impone un confronto
generazionale diretto, con una memoria generazionale che in apparenza
non ha punti in comune con quella fetta di Storia; è sufficiente,
però, il collaudato meccanismo della realtà bigger
than life,
dove malauguratamente si ritrovano tre candidi sprovveduti, a
suggerire come una tra le più tragiche pagine di cronaca degli
ultimi trent’anni (che ha riportato la nazione al centro
dell’attenzione mediatica) a tutt’oggi rimanga argomento
delicato, di non facile rimozione, la cui memoria giocoforza affiora.
Molti
sono i prodotti dell’ultimo decennio in cui la Romania è al centro
di disquisizioni, spesso e non volentieri, in prevalenza posta quale
oggetto di confronto col modus
operandi,
ormai standard, della più conformistica globalizzazione, e mai
lontana da pregiudizi e insofferenze verso l’altro da sé. Un
fenomeno che proprio gli anni Ottanta hanno sciaguratamente
introdotto nei loro (ne)fasti, senza minimamente porsi il problema
dei troppi cocci seminati da vaghe promesse di ricchezza, elevando la
superpotenza degli Stati Uniti a modello di riferimento (e si ripensa
a Chuck
Norris vs. Communism,
diretto dall’Iliaca Călugăreanu che proprio in America avrebbe
girato i documentari successivi). Il paragone non suoni troppo
inconsueto: il Paese, che con l’Italia ha un lungo legame fattosi
problematico col tempo, guarda alla Penisola come a un Paese dei
Balocchi nel quale godere di un benessere inedito, e può
beneficiarne dagli schermi televisivi attraverso la diffusione in
pompa magna delle kermesse
sanremesi. Si può obiettare a Est
una
certa ruffianeria nella soluzione scenica dei temi, e in qualche
parentesi, furbescamente velati, spuntano pure i modelli
cinematografici. Eppure, l’arcinoto schema del road
movie,
che permise al glorioso cinema nostrano d’inaugurare la commedia
italiana (e a sua volta archetipo ispiratore per la filmografia a
stelle e strisce), si rivela l’opzione meglio indicata per la
riproposta d’un simile argomento, tanto che l’astuto stratagemma
ne ha fatto una delle sorprese al botteghino nella difficile stagione
post-lockdown.
L’operina di Pisu assume, forse indirettamente, le spoglie d’un
risarcimento ad ampio raggio (storico, politico, sociale, culturale)
nei confronti d’una landa con cui non solo si è debitori di tanti
sassolini nelle scarpe, ma i cui rispettivi sviluppi venturi al
centro della cronaca rassomigliano e apparentano.
Ecco
allora il significato nelle parole del sorridente Rice (Lodo Guenzi),
il più nervoso del trio, mentre osserva la gente romena che cammina,
paragonandola a genitori anaffettivi senza celare un velo di
commozione: quasi che la vicinanza tra popoli, come una sorta di
famiglia riunita, concretizzasse un disegno destinato
all’aleatorietà. Di tal comunione, cinta nella delicata azione dei
protagonisti di recapitare a chi di dovere la misteriosa valigia deus
ex machina,
Pisu fornisce un palpabile assaggio nella scena in cui i ragazzi sono
ospiti a casa d’una giovane romena, una delle varie “amichette”
del magliaro soprannominato “il Bolognese”, incontrato in uno
squallido ristorante: sentendo la madre della giovane accennare
Felicità,
brano che ha reso Al Bano e Romina Power icone nell’Est Europa, i
Nostri s’abbandonano, tra il divertito e il nostalgico, a un tenero
momento canticchiandola insieme alle padrone di casa. E ad avventura
conclusa,
tornati alla vita di sempre dopo mille peripezie, ai tre non rimarrà
che osservare le immagini della disfatta del Conducător
dallo
stesso schermo televisivo che introduce l’assunto; a dispetto di
chi li circonda, la loro è una consapevolezza più matura, simile
alla registrazione di volti di contadini e povera gente scrutati dai
finestrini di un’auto. Salvo che se, in un primo tempo, la presa di
coscienza s’innesta graduale su una vacanza picaresca e un po’
cialtrona, i minuti conclusivi, scanditi da un montaggio alternato,
accomunano i primissimi piani dei giovani a quelli delle persone che
hanno soccorso: consapevoli di aver vissuto quella
Storia in prima persona, e avendo sperimentato il volto del regime
totalitario, i loro occhi s’illuminano maturi di speranza di fronte
al suo disfacimento, vedendo un popolo sottomesso alzare la testa e
ribellarsi per una volta (e purtroppo l’unica). In quell’occasione,
l’Italia ha contribuito fraterna.
Est
si
discosta dal paradigma seguito da Gianni Amelio ne Lamerica,
del quale sembra riproporre la fedeltà nella difesa d’un Paese
vittima del comunismo reale, che, attratto dallo squallore di miti
menzogneri offerti dalla televisione italiana, persevera nella
propria infantile fedeltà verso la Penisola, illusoria America del
paradiso capitalista. Non pochi sono gli squilibri nella costruzione
drammatica, i passaggi troppo programmatici in senso ideologico e non
mancano indugi sui tempi morti dell’azione, quasi sempre stemperati
da uno humour non irresistibile (l’equivoco, dovuto alla ricerca di
carburante, tra Bibi-Jacopo Costantini e un camionista romeno),
sebbene non insensibile alla documentazione della circostante
indigenza. Come per Amelio, però, il lavoro di Pisu rientra in
quella categoria di confezioni imperfette che contano più delle
riuscite, almeno per chi le progetta; e la similarità tra i film non
s’arresta ai bambineschi sguardi dei balcanici abituati
all’immarcescibile cliché italiani
brava gente
(il cui artista musicale più gettonato, oltre ad Al Bano, è Toto
Cutugno): lo testimonia l’angosciante presenza degli agenti della
Securitate, che requisiscono i passaporti dei protagonisti, li
pedinano, ne perquisiscono la stanza in albergo – sottraendogli i
nastri della vacanza – e con velata minaccia gli intimano di
andarsene (“Ogni casa ha le sue regole”).
Figlio
del compianto Raffaele (che appare nelle immagini tv in apertura,
alla conduzione di Striscia
la notizia),
nonché fratellastro del Paolo Rossi produttore, Pisu non trascura di
ricordare che il film è una commedia, e nell’iniziale tentativo
del trio di partire per Budapest, allo scopo di far quattrini
vendendo lingerie, è facile intravedere il bulletto Enzo di Un
sacco bello
alle prese con un’analoga, disastrata partenza per l’Est; e il
bozzetto del faccendiere trafficone e sfruttatore, di dubbia
moralità, cui i tre si rivolgono nel sottofinale, sa di déjà
vu.
La sollecitudine dei protagonisti, nel ritrovarsi di fronte a un
evaso dalla Romania per scherzo del Fato, devia il binario verso un
drammatico registro – travisato dall’atteggiamento dei ragazzi,
burlesco e fracassone – che sfocia nel giallo. E se romene
risultano maestranze e metà cast, nemmeno a farlo apposta topoi
e indizi della cinematografia del Paese s’insinuano nella vicenda,
a tratti facendone un prodotto d’estrazione Noul
Val:
a partire dalla richiesta d’aiuto dell’esule (Liviu
Cheloiu),
che echeggia Morgen
di
Marian Crişan, mentre l’auto dei tre inseguita da una vettura
rossa riporta a quel Marfa
și banii,
prima regia di Cristi Puiu, in cui recitava la Ioana Flora qui
intristita moglie del profugo. L’inconsapevole scelta di slittare
da Budapest a Bucarest, trovandosi nel posto giusto al momento
sbagliato, s’abbina a parentesi umoristiche che, da un lato,
rimirano esempi cinephile
(il Billy Wilder di Uno,
due, tre!),
e dall’altro fanno dei Nostri delle scalcinate macchiette da
commedia (pensiamo a Două
lozur
di Paul Negoescu), non meno alle prese con foschi apparati
legislativi dove la corruzione – bottiglia di vino o pacchetto di
sigarette – è la risposta a tutto. Merce e denaro. E a causa di
questo, improvvisando un mercatino, i bei tomi svuotano le tasche di
persone in fila per il pane, e rastrellano un discreto maghetto
(mentre gli acquirenti trovano di fatto lamerica)
un istante prima di incontrare la temibile milizia.
Sebbene
restituita con vistosa ingenuità (Rice, Bibi e Pago ritrovano
casualmente la misteriosa auto rossa), la patina gialla si focalizza
nella figura d’una cantante romena (la Julieta Szönyi
vista ne La
Gomera – L’isola dei fischi),
che nella propria orazione sull’importanza d’un oggetto
scaraventato per strada – non una qualsiasi valigia, ma la speranza
d’una famiglia – rammenta la fuggiasca de Il
sipario strappato,
di cui mantiene analoga azione di disturbo e maggior carica
d’ambiguità. Senza contare che l’innesco thrilling (in salsa
rosa) è originato dall’ingenuità di Bibi al telefono con l’ex
fidanzata, cui racconta per filo e per segno l’avventura, prima che
una sinistra voce interrompa la conversazione. È però la Storia,
col suo ingombrante fardello, a catapultare i giovani tra equivoci e
impicci a non finire: ecco come i fotogrammi 8mm, sfilanti dalle loro
riprese amatoriali, vanifichino il montaggio televisivo dell’incipit
che ostenta match calcistici, Reagan
e Gorbačëv, e soprattutto Bettino Craxi su un palco, mentre
annuncia l’imminente entrata “con slancio” dell’Italia in
Europa. “Un brindisi alla povertà”, strilla il faccendiere in un
locale senza cibo, mentre i volti della fame sono commentati da
L’ombra
della luce
di Battiato: la Romania è lontana anni luce da quella cartolina
illustrata che il castello del conte Dracula di primo acchito
suggerirebbe. E nonostante la buona fede dei protagonisti nella
propria missione benefica, e nel tentativo d’impartire nozioni di
lingua italiana ai famigliari di Emil, nessuno può assicurare che il
tenore di vita, abbandonando il Paese, migliorerebbe (e il trentennio
seguente è lì a dimostrarlo); meglio conservare salde le radici
anziché vivere da clandestini o da braccati, nonostante documenti
falsi – col nome di nonna Costelia-Ana Ciontea trasmutato in quello
dell’icona sexy Sabrina Salerno – consentano a costoro di
attraversare il confine e ricongiungersi al parente. La fuga dal
Paese, in tante occasioni registrata dal cinema romeno, qui non si
concretizza a dispetto che ne Il
giorno della rivoluzione
di Leonardo Celi, consapevoli che il vaneggiato avvenire non
giungerebbe mai; il semplice recapito della valigia con tutto il suo
contenuto, e la conseguente proiezione dell’home
movie
della vacanza in cui appare Emil, nell’appartamento dell’amico e
vicino di casa, costituisce occasione di calore e umanità, cui
un’ultima, amara sorpresa fa da contrappeso dopo i titoli di coda
(trasferito in un campo profughi in Austria, l’uomo
non ha mai fatto ritorno in patria).
Sicché
Est
concede
margine anche per la redenzione, trasformando Rice, Bibi e Pago in
demiurgici mensch
e facendo dell’opera una favola dolce-amara in cui è possibile
“danzare come le zingare del deserto”, esorcizzando per un
momento lo squallore circostante. Eppure, la proiezione del videotape
amatoriale, esibita in excipit
coi veri
autori, non oscura facilmente il ricordo d’un itinerario di dieci
giorni in cui la svolta della maturità (e dell’amicizia)
sopperisce a improvvisazione e a spavalderia, mentre la fine del
regime sovietico è nell’aria.
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