Lina Settebellezze
“Lina,
a mio parere, è preferibile come regista a qualsiasi
maschio… Travolti
da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto mi
ha fatto tornare in mente Tropico
del Cancro e Sexus.
Umorismo e scopate a mucchi… Hollywood, con tutti i suoi divi, non
sa darci questo.”
HENRY MILLER
HENRY MILLER
I
suoi prodotti fanno
storia a sé. Gli occhialini in bellevue,
il timbro arrochito dalle troppe sigarette a mo’ di contrappunto,
sono sufficienti a delineare un
personaggio dal carattere impetuoso,
turbolento sin dall’infanzia, all’occorrenza ruspante benché –
lo rimarca già Enrico Giacovelli – non sempre in punta di
fioretto. Autrice di testi, paroliera, scrittrice. Autoironica,
benché non simpatica. Aggressiva sul set come fuori, manesca quando
necessario (il compianto Luciano De Crescenzo ne sapeva qualcosa…).
Una che, in poche parole, non la mandava a dire. Non necessariamente
questo significa che la grossolanità, ostentata a
volte, ne oscurasse l’intelligenza; e, per quegli attori da lei
lanciati nella produzione italiana in un periodo delicato quanto
buio, l’acume, se non il genio, su un certo modus nella
restituzione del Belpaese. Sarebbe errato attribuirle l’invenzione
di titoli divenuti rapidamente proverbiali (ci aveva già pensato il
collega Scola), ma non v’è dubbio che una qualsiasi sua opera
fosse, e sia rimasta, parte integrante d’una tempra tutta d’un
pezzo. Che le commedie da lei firmate fossero, in America più che in
Italia, in cartellone anche molto dopo la loro uscita, dovrebbe dirla
lunga su un fenomeno di costume seguito, emulato e rivisitato.
Incluso nel Blu-ray di quel Pasqualino Settebellezze che fruttò quattro nomination all’incondizionato Oscar, tra cui miglior film straniero e miglior regia, il documentario dedicato da Valerio Ruiz alla Wertmüller, Dietro gli occhiali bianchi, annovera tra i contributi persino la testimonianza di Scorsese: dichiarato estimatore di Lina, il maestro osserva come la polemica, forse presente forse no, conti assai meno del primario obiettivo, far ridere attraverso una personale rielaborazione della Commedia dell’Arte. Di primo acchito, l’aficionado cresciuto a pane e celluloide sbalordirebbe verso una simile posizione; eppure la cosa non dovrebbe destare perplessità. Proveniente da una famiglia aristocratica di remote origini svizzere, Arcangela Felice Assunta Wertmüller von Elgg Spanol von Braueich – questo il nome anagrafico, di per sé chilometrico – non ha mai fatto mistero come il suo cinema, così discusso (in prevalenza esecrato) e al contempo così visto, fosse il risultato d’una vena sanguigna, che fin dalla più tenera età respirava cultura. La longeva amicizia con Mastroianni, l’aiuto di quest’ultimo ad inserirla nel milieu, può leggersi in filigrana quale segno del Fato, nella misura in cui la moglie di Marcello fu tra le compagne di scuola di Lina. Ma la linfa culturale di cui si diceva, e il particolare amore per il teatro, suonano tropi d’uno stile che, sbocciato con inusitata soavità, svelava un tatto, una delicatezza, una malinconia, destinate a dissiparsi nei periodi successivi, obbligo di cassetta permettendo.
Incluso nel Blu-ray di quel Pasqualino Settebellezze che fruttò quattro nomination all’incondizionato Oscar, tra cui miglior film straniero e miglior regia, il documentario dedicato da Valerio Ruiz alla Wertmüller, Dietro gli occhiali bianchi, annovera tra i contributi persino la testimonianza di Scorsese: dichiarato estimatore di Lina, il maestro osserva come la polemica, forse presente forse no, conti assai meno del primario obiettivo, far ridere attraverso una personale rielaborazione della Commedia dell’Arte. Di primo acchito, l’aficionado cresciuto a pane e celluloide sbalordirebbe verso una simile posizione; eppure la cosa non dovrebbe destare perplessità. Proveniente da una famiglia aristocratica di remote origini svizzere, Arcangela Felice Assunta Wertmüller von Elgg Spanol von Braueich – questo il nome anagrafico, di per sé chilometrico – non ha mai fatto mistero come il suo cinema, così discusso (in prevalenza esecrato) e al contempo così visto, fosse il risultato d’una vena sanguigna, che fin dalla più tenera età respirava cultura. La longeva amicizia con Mastroianni, l’aiuto di quest’ultimo ad inserirla nel milieu, può leggersi in filigrana quale segno del Fato, nella misura in cui la moglie di Marcello fu tra le compagne di scuola di Lina. Ma la linfa culturale di cui si diceva, e il particolare amore per il teatro, suonano tropi d’uno stile che, sbocciato con inusitata soavità, svelava un tatto, una delicatezza, una malinconia, destinate a dissiparsi nei periodi successivi, obbligo di cassetta permettendo.
Ci
fu un tempo, tuttavia, in cui il Mezzogiorno retrivo, incapace di
sfuggire all’inguaribile torpore, era la risposta a quello mostrato
da Germi, altrettanto risonante all’estero nella condanna di usi e
costumi. Calcando la falsariga di confezioni in cui la Sicilia
squadernava il proprio lato contestatario – complici i vari Rosi,
Petri, Damiani – I
basilischi preferiva
carezzare il pegno felliniano, in direzione ostinata e contraria a I
vitelloni,
con qualche spruzzata di mitologia ellenica e letteratura russa
(Oblomov
del Sud,
doveva nominarsi in un primo momento). E del Riminese, Lina fu aiuto
regista oltre che amica. Quel tocco leggero,
rivedendolo oggi, suona
strano rispetto
all’immagine del Meridione che il decennio Settanta avrebbe
consegnato in salsa farsesca e
in tutta veemenza, tra grida e fisicità, senza disdegnare il
vernacolo stercorario o la deformazione del corpo, tanto più
mercificato quanto più accentuato all’iperbole. Piaccia o meno, si
vogliano prendere le difese dei Mimì Mardocheo e Gennarino
Carunchio, anche quest’aspetto è il continuum d’una
narrazione che, con buona probabilità, non poteva reinventarsi con
gli stessi buoni risultati dovendo contemporaneamente colpire alla
botte (degli incassi) e al cerchio (del buongusto), sfidando le
convenzioni dell’establishment impegnato,
d’estrazione militante, nell’affrontare confusamente il conflitto
tra i sessi tra personale e politico. Non a caso, alla dileggiata
Lina non fu mai dedicata una monografia (si deve attendere il 2006
perché Claudia Cascone pubblichi Il
Sud di Lina Wertmüller),
e a questo la Nostra, disponendo di
bastevole faccia tosta, restituiva la pariglia con usuale cipiglio
provocatorio, interpretando la derisione quale straniante encomio.
“Il talento è l’unica cosa che conti per me – sosteneva – e
dovrebbe essere l’unico parametro con cui valutare a chi assegnare
la regia di un film”. In tal senso, aver creduto in volti freschi
d’accademia – da Giannini alla Melato, e ancora Piera Degli
Esposti, Luigi Diberti, Roberto Herlitzka o Eros Pagni – dovrebbe
costituire il principale vanto per cui accoppiate furibonde,
nell’imperituro conflitto di classe, tuttora è la ragione per cui
quelle pellicole continuano a sfollare sulle emittenti tivù.
Così
pure la scommessa di trasformare il fisico canterino di Rita Pavone,
regalando il miglior adattamento da Vamba, la cui impostazione, a
tratti, si rifà al giornale per ragazzi L’Avventuroso,
in voga durante il regime: s’è semplicistico contestare
la Wertmüller
del grande schermo, nessuno può negare che il Gian Burrasca
televisivo, alter
ego ribelle
e libertario dell’autrice, sia un reale capolavoro, pervaso dalla
nostalgica vena per la quale Italia e televisione, altrove, erano
dispensa di insegnamenti e valori morali. Messo a frutto al servizio
di Salvini, De Lullo, Garinei e Giovannini, l’enorme affetto per il
palco ben si coniuga alla sensibilità verso la sfera infantile
conosciuta quale animatrice e direttrice per gli spettacoli del
teatro dei burattini di Maria Signorelli (e al medesimo ambito, tempo
dopo, la cineasta sarebbe tornata trasponendo Guareschi a Bologna e
Marcello D’Orta nell’amata Napoli più volte rivisitata,
sfornando un ulteriore amarcord della
sua radice familiare). Plateali, nel conseguimento d’un grottesco
barocco,
sono le scenografie di Enrico Job, amore di una vita, che disinvolte
sfollano da un colorito bordello romano, passando per
un Napoletano folklorico e caciarone, a un orripilante lager abitato
da internati ridotti a larvate
anime;
merito da spartire con le luci denaturate dei Dario Di Palma, Tonino
Delli Colli o Giuseppe Rotunno di turno. Sta di fatto che l’empatia
del pubblico verso tali prodotti quasi sempre si scontrava con una
critica radicale, pronta a colpire l’assetto più vistosamente
commerciale, impipandosi altamente di riconoscere
la
Penisola quale tana di mostri, fieri della loro deformità etica e
fisica, disposti senza ritegno al peggio. Suona cerchiobottista la
citazione dal Malatesta nel presentare attentatori sedicenti
anarchici, eletti a martiri ed eroi, nella misura in cui viscide
maschere dalle deplorevoli reazioni sono riverbero di un possibile
stato d’animo, di fronte ai frutti più avvelenati d’una società
prevaricatrice.
C’è
da capire perché un autorevole critico, detrattore della
regista-sceneggiatrice, l’accosti a Tinto Brass; non si nega che
quegli anni difficili prendano di petto l’alienazione del tempo con
mezzi spicciativi e spesso grossolani – dunque, tanto più
facilmente virali –mediante figure
terrificanti gonfiate al limite del caricaturale, esasperate ma
strazianti, senza troppa cura di risolvere situazioni e dialoghi in
modo meno sommario. E andando dritto al sodo, sterzando verso
l’ossimoro più orrifico, addirittura nutrendo dubbi sull’ideologia
femminista, difesa con orgoglio, di Lina: pensiamolo adesso, con
l’ipocrita politically
correct dietro
l’angolo, un tentativo di stupro condito di botte su cui
sghignazzare... Soluzioni visive senza fronzoli, come il fregolismo
di Turi Ferro nel simboleggiare la Trinacria, il montaggio
introduttivo che accosta Mussolini e Hitler a immagini belliche
commentate dall’inconfondibile voce di Jannacci, o la repellente
aguzzina con cui il meschino protagonista, disposto a tutto per
salvare la pellaccia, è indotto a un coito disperato. Ciò
basterebbe a fare di questo un cinema “d’autore”? La disamina
prosegue indomita (e si ripensa a quel giudizio sprezzante, ancorché
inesatto, che definisce la Wertmüller “prima artista di rilievo
nell’era craxiana”), senza individuare consensi unanimi, e magari
è giusto così. Si ride di questo,
non con questo:
il ribaltamento del campionario italico è ingrediente standard della
commedia, che tutto mette in burla e dissacra lungo una traccia di
dolore nichilista; scherzo del destino o no, sbracato o sguaiato che
sia, è il pensiero (la politique?)
di una personalità pronta ad alzare il dito medio. A smorzare i toni
pensano le arie della Traviata o
della Casta
Diva,
le partiture di Rota o le saporite chanson di
Paolo Conte.
Talora
l’interesse verso tematiche sottili (la crisi di ménage)
non corrisponde ai botteghini, talaltra argomentazioni scottanti
(l’Aids) sfociano nello humour involontario – e Rutger Hauer la
ripone tra le esperienze più mastodontiche da lui affrontate;
l’Anonima Sequestri diviene ulteriore spunto per una pochade di
costume, sull’asse allegorico avviene il superamento della lotta di
censo e la politica anni Novanta, coi sostenitori di Rifondazione che
s’infatuano delle leghiste, non riesce a convincere con gli
strepitii di prima. Nemmeno le sceneggiate, di visibile paradigma
catodico: Peperoni
ripieni e pesci in faccia,
ultimo lavoro per il cinema nonché quarta collaborazione con Sophia
Loren, è un fiasco totale. Tutto a posto e niente in ordine,
parafrasando l’autobiografia della Nostra nel riprendere un titolo
dell’eclettica produzione: un vortice della cinecamera su una
chiassosa cucina, attraverso un’incessante panoramica; la
Preistoria reinventata a quattro mani per Festa Campanile (e
sceneggiatrice, tra gli altri, lo fu per Zeffirelli); o il
conglomerato di buffonesche macchiette nell’abitacolo d’un
blindato: degno carosello, segreto di una dissertazione che non può
esser altro che così. Un mega-Carnevale, senza che nulla, compreso
un suicidio, si prenda troppo sul serio (“Considero il divertimento
una cosa preziosa, molto più del successo”). Come la Penisola,
secondo Lina. Com’era lei in
primis.
Francesco
Saverio Marzaduri
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