Amore all’ultimo morso: “Il Cinema Ritrovato”
Amore all’ultimo
morso: “Il Cinema Ritrovato”
“La gente deve imparare di nuovo ad andare al cinema, nelle grandi sale:
un’abitudine che da tempo abbiamo perduto”, dichiara il
settantaduenne John Landis, ospite tra i più illustri fra i tanti
della XXXVI edizione de “Il Cinema Ritrovato”. E continua,
affermando che “i film si possono vedere anche su computer
e laptop,
ma occorre imparare a vederli nuovamente in sala perché la
principale caratteristica è la gente, il pubblico: insieme è tutto
più piacevole ed emozionante, stare insieme amplia i sentimenti. Il
cinema lo immagino all’antica, come uno sciamano che racconta
storie davanti a un fuoco... Una luce che viene proiettata mentre gli
altri guardano”. Se dichiarazione d’amore nei confronti della
Settima Arte necessitasse di parole, quelle del mai dimenticato
autore di The
Blues Brothers condensano
e precisano il principale obiettivo che da trenta e più anni, ad
ogni inizio estate, la kermesse di
Bologna propone agli spettatori, agli aficionados,
agli studiosi e storici e critici da tutto il mondo. Lo ricorda lo
stesso direttore Gian Luca Farinelli, chiamato a sostituire Paolo
Mereghetti durante la masterclass nella
cornice del teatro Arena del Sole, a fronte dell’entusiasmo con cui
Landis si complimenta per l’appassionata, sfarzosa visibilità
messa in atto per restituire un sapore svanito da tempo. Soprattutto
nelle più fresche leve,
la presenza di Landis solidifica un’infatuazione spesa lungo
un’esistenza – non a caso, egli si concentra più sulle proprie
esperienze giovanili che sui titoli noti ai più – in cui il gusto
della citazione cinephile,
il giochino dei cameo di
colleghi-amici, e prima ancora il divertissement puro
e semplice, trae origine da una gavetta come fattorino per
le majors che
gli consente di conoscere illustri nomi dell’industria (compreso
Hitchcock); e finalmente compiere il salto in qualità d’aiuto
regista per I
guerrieri,
diretto da Brian G. Hutton – seppur in modo rocambolesco, attaccato
alla coda d’un treno diretto per l’Est Europa.
Gli immancabili
ricordi, dedicati all’amico-feticcio Belushi o a Michael Jackson,
sono doni capaci ancora di trasmettere quell’adrenalina – e
quella magia – che raduna la città in Piazza Maggiore durante la
serata di chiusura, in cui il cineasta introduce l’extended
cut del
suo capolavoro tra aneddoti e curiosità. E gli spettatori, alcuni
dei quali rigorosamente in Ray-Ban, cappello, cravatta neri,
accorrono in massa richiamati dall’incontenibile voglia
d’intonare Minnie
the Moocher,
insieme a Cab Calloway, e ovviamente danzare coi protagonisti sulle
note di Everybody
Needs Somebody to Love:
segno invincibile che la memoria generazionale non s’esaurisce,
complici effigi e miti che hanno creato uno stile, continuando a
colpire l’immaginario. Stile – svela la costumista Deborah
Nadoolman, moglie e collaboratrice di Landis, durante il meeting a
due voci con Ursula Patzak – ispirato ad archetipi precisi, da
Kubrick a Visconti, in cui parecchio dipende dalla personalità dei
divi a contratto, nella misura in cui la fantasia si coniuga col
gusto personale, a partire da un colore preferito, prima di qualsiasi
carisma o charme.
Chi scrive, al termine della lezione, è testimone anche d’un
divertente siparietto sentimentale tra coniugi che, corredando una
ricca dispensa di pareri e consigli, vale più di qualsiasi autografo
o selfie.
Come la loro stessa presenza tra le bancarelle del Book
Fair presso
la biblioteca della Cineteca o, da parte del solo Landis, sedere tra
le file dell’Auditorium DAMSLab per assistere a un’altra master:
quella d’un ottantenne, claudicante ma non arrugginito Walter Hill
– introdotto da Mauro Gervasini e Roy Menarini – chiamato a
presentare l’edizione rimasterizzata di Driver
l’imprendibile,
sulla cui prolifica carriera, iniziata come screenplayer negli
anni Settanta al fianco di Peckinpah o Huston, spende l’oretta a
lui dedicata con dozzine di storie sulle pellicole più amate (I
guerrieri della notte in
prima fila) o di culto (da L’eroe
della strada a I
guerrieri della palude silenziosa),
non trascurando il proprio debito verso il compianto Peter
Bogdanovich. Occasione ghiotta per gli amanti del western,
quintessenza del genere action,
oltreché quello che meglio consente al cineasta di Long Beach di
biforcarlo in altre “strade di fuoco”, costituite da buddy-buddy,
musical, miniserie televisive ispirate a storie vere,
contribuendo, tra stilemi e paradigmi autoriali,
a inaugurare innovative pagine nell’immaginario metropolitano.
Senza tradire la personale integrità a rischio di moralismo o
incomprensioni, come insegna il collaudato binomio realtà-leggenda
(la collaborazione con un debordante John Milius per Geronimo)
e testimoniato dal longevo sodalizio col musicista Ry Cooder; un’idea
di cinema radicale ch’è l’esatta antitesi
dell’emisfero cinecomic (“Oggi
le pallottole sono finte: uno muore, poi rivive, poi muore di nuovo…
L’importante è che questo avvenga con un gran
frastuono”). Curioso, ma ineludibile, che ad entrambi i film
maker venga
domandato se l’attuale System,
pressoché mutato a livello di pubblico e ricezione d’immagine,
conceda margine per un lavoro venturo: “Non ci puoi lasciare soli
coi Marvel”, dice Farinelli a un ironico Landis, “John Belushi
era un supereroe ma era un essere umano”, laddove Hill ha in
cantiere l’imminente Dead
for a Dollar,
un altro western con un cacciatore di taglie per protagonista,
dedicato a Budd Boetticher.
Il
test migliore lo riserva il tempo: se le critiche ne lasciano quanto
ne trovano, è comunque e sempre la soggettività a far la
differenza. Sicché il significato dell’espressione che intitola la
rassegna – ipotizza Gianni Amelio il giorno dell’inaugurazione –
incarna il ricercato quid da
recuperare, riscoprire come la prima volta, ché il gusto
superficialmente sfumato ricompensa il risultato ancor più critico
dell’abbandono della sala, sia pur imposto dalla pandemia. E per la
prima volta, c’è chi scopre lo splendido nitore in bianco e nero
di Renoir ne La
regola del gioco o
del De Sica di Sciuscià,
estasiato dal kitsch rutilante
e coloratissimo di Tommy (paragonato
al recente Elvis di
Luhrmann), quando non impaziente di visionare l’edizione integrale
del viscontiano Ludwig.
Un toccasana, continua l’autore de Lamerica,
contro spocchia e confezioni da festival: segnale di quella
democrazia per fortuna dura a spirare, perlomeno in ambito culturale,
che non discrimina una selezione capace di assortire Von Stroheim e
l’Eustache di La
Maman et la Putain,
la proiezione a carbone di Nanuk
l’eschimese e
la Loren, la maschera glaciale di Delon e Keaton. E nella ricca
offerta di retrospettive, concedere uno spazio camp,
denominato “Pratello Pop”, riservando all’ex sala Lumière le
eccentriche e un po’ folli visioni che alternano Argento,
Cronenberg, Lynch a Pink
Flamingos,
o al classico della fantascienza di serie B Invaders
from Mars o
a Gola
profonda – come
il film di Waters, scelto per festeggiarne il 50o anniversario
– e tra i goliardi c’è addirittura chi stappa una bottiglia di
champagne. In un’edizione che finalmente si riconcede in presenza
dopo un paio di edizioni forzosamente ridotte, gli omaggi e gli
anniversari, le commemorazioni e i centenari, sono all’ordine del
giorno: tra questi
il repêchage di un
bizzarro western blaxploitation diretto
e interpretato da Sidney Poitier, Non
predicare… spara!,
con un Harry Belafonte sedicente apostolo.
Ed è la singolarità dell’evento, durante la proiezione di Picnic
ad Hanging Rock,
a permettere di verificare come a dispetto della versione comunemente
nota, la ricostruzione mostrata del director’s
cut – assemblata
da Weir per la Criterion nel ’98, partendo dai negativi originali –
duri 8’ meno, con un sonoro rimaneggiato per migliorare il formato
(1-1:66) e l’intenzione all’origine (sparito il flauto di Pan
suonato da Zamfir sugli ending
credits).
Stessa cosa per l’episodio conclusivo del Padrino,
rimaneggiato da Coppola e rinominato The
Godfather, Coda:
The Death of Michael Corleone,
con immagini e suono restaurati, nonché incipit ed epilogo
modificati.
L’impressione,
tuttavia, è che da qualche tempo “Il Cinema Ritrovato” abbia
superato gli iniziali intenti, concentrati in principio sulla
divulgazione del muto: s’è optato per una più vasta offerta di
titoli di epoche diverse, molte delle quali
celeberrime, escamotage (seppur nobile)
pensato per attirare attenzioni ogni volta maggiori, ingolosite da
ospiti di cartello o dall’inclusione di addetti ai lavori, chiamati
a illustrare il ripristino in digitale per le uscite in dvd (dunque,
non è un mistero che la rassegna s’adoperi per la salvaguardia del
cinema d’autore in home
video).
Non sempre è possibile garantire la visione su pellicola, anche se
non manca l’approvvigionamento di bobine dalle cineteche estere:
esorbitante l’emozione del film su grande schermo, in cui si resta
ancorati a un concetto vintage dell’intrattenimento
che smitizza la restituzione al computer, rendendola qualcosa di
meno persuasivo.
Ciò non toglie alle maestose luci di Nostalghia e
de Il
gigante,
rispettivamente firmate Giuseppe Lanci e William C. Mellor, un senso
del magno spazio destinato a lasciare solco profondo, difficilmente
concepibile su uno schermo televisivo o, peggio, uno smartphone.
Si dubita che la rivisitazione di classici anni Quaranta, qual
è L’oro
del demonio,
o d’un prodotto pre-sessantottino come Il
dio nero e il diavolo biondo,
cinto nella luminosità di Waldemar Lima, risponda alla magia
del mascherino:
cosa invero possibile
per gli spettacoli in piazza, da Come
le foglie al vento a Cantando
sotto la pioggia,
all’immortale Murnau di Nosferatu introdotto
da Gabriele Mainetti e accompagnato dalla partitura di Timothy Brock.
Certo, una gran fetta in cartellone sono evergreen proposti
e riproposti: quindi per sopperire (anche) alla lacuna di quanti non
hanno visto Il
7o viaggio
di Sinbad,
con gran rammarico di Landis, il reale piacere consiste nella ricerca
della produzione jugoslava, che include Bahrudin
Čengić, Aleksandar
Petrović, Miloš
Stefanović, o nella sezione “Cinemalibero”, che dà modo di
catapultarci nell’universo circense dell’indostano Thamp̄,
o, in Canoa:
Memoria de un Hecho Vergonzoso,
rievocare i barbari eventi in un piccolo villaggio di San Miguel
Canoa, nel ’68, i cui abitanti, manipolati da un locale prete di
destra, aggrediscono brutalmente alcuni dipendenti dell’università
autonoma di Puebla, credendoli rivoluzionari comunisti. Ancora, più
del tradizionale ciclo dedicato alla succitata Sophia, succulente
appaiono le playlist monografiche
su due registi, l’argentino Hugo Fregonese e il giapponese Kenji
Misumi, e sull’iconico attore Peter Lorre, del quale, oltre a una
varietà di pellicole statunitensi ed europee (immancabile M
– Il mostro di Düsseldorf),
si può assistere a L’uomo
perduto,
sua unica regia, girato nel campo per rifugiati di Heidenau e
all’epoca malamente accolto dal pubblico. Né manca uno sguardo
riservato al muto, italiano e spagnolo, e al cortometraggio, in
particolare a firma del francese Victorin-Hippolyte Jasset; e,
infine, alle commedie musicali tedesche del biennio ’30-32, al
documentario, al Robin
Hood con
Douglas Fairbanks e all’apposito capitolo concesso ai più piccoli.
E via discorrendo.
Di tutto un po’, si suol dire,
attenti a non trascurare nulla e senza dar credito alle eventuali
lacune. Benché lo standard odierno, pressoché ovunque, imponga la
prenotazione del posto in sala previo anticipo, un encomio
meriterebbe l’organizzazione di volontari chiamati a garantire il
servizio e placare il nervosismo – e l’inciviltà – di
spettatori in ritardo, col prevedibile esito di circostanze
imbarazzanti. È anche, e soprattutto, per loro che la passione
(in)infiammabile per la celluloide può continuare a nutrirsi, con
l’augurio che un avvenimento estivo non sia univoca occasione per
far capannello, conferendo respiro a un mondo sempre più privo
d’avvenire. È nel quadretto d’una Stefania Sandrelli ancora
luminosa, nonostante i 76 calendari, che la proiezione de Il
conformista – nel
florido bagaglio di ricordi, offerti da un’apparente dispersione che
ne accentua la sempiterna eleganza – emerge luminosa come non mai,
servita dalla regia di Bertolucci e dalla sinuosa fotografia di
Storaro. L’attrice siede in mezzo al pubblico, rimira estasiata il
capolavoro quasi che la magia tornasse a scintillare. Una ragione
sufficiente, tra le enumerabili, perché L’ultimo
spettacolo – anch’esso
ripresentato nel cut di
126 minuti – non sia l’Ultimo Valzer. Affinché l’estrema sala,
la città, non sia la sola rimasta.
Francesco Saverio Marzaduri
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