Anatomia della perfezione
Anatomia della perfezione
Parlare
di Kubrick significa navigare in un oceano di
contributi critici immenso, e dissertare su Barry
Lyndon significa
parlare d’uno dei più perfetti film mai realizzati: secondo alcune
autorevoli voci, anzi, il più perfetto in assoluto. Per esserne
compiutamente consapevoli – non per fede quindi, ma per verifica
oggettiva – occorre però dimostrarlo. Argomentarlo. Compito tra i
più ardui, come sempre davanti a un sommo capolavoro quando ci si
propone di svelarne artifici e meccanismi, pur sapendo che
l’Ineffabile non si presta ad alcuna esauriente definizione. Si può
sempre, tuttavia, porre attenzione ai processi e agli elementi di
volta in volta posti in gioco, la combinazione dei quali è ciò che
genera l’Ineffabile: ciò che ne consente gestazione e nascita,
rendendolo possibile e, pur nella sua inafferrabilità, concreto.
Quanto
più ricco è un capolavoro di elementi da considerare, quanto più
vasta ed articolata la loro interconnessione, tanto più complessa
risulterà la ricerca nel proprio
procedere; e se misurarsi coi capolavori può far tremare a volte le
vene ai polsi, quelli sommi sgomentano. Occorre non perder di vista
alcun dettaglio: nel caso d’un film, nessuna inquadratura fosse
pure di pochi fotogrammi, nessun dettaglio circa la sua costruzione,
e all’interno di essa nessuno circa l’organizzazione dello
spazio, presenza e collocazione di figure, scelta e disposizione di
oggetti e arredi, luce come fonte cromatica e come provenienza o
angolazione, commento musicale diegetico o meno e sua funzionalità
alle immagini, iconografia e iconologia d’ogni immagine stessa.
Senza omettere alcun aspetto, dedicando attenzione critica a ciascuna
singola componente senza trascurarne alcuna.
Forse
è per questa ragione che la pur vasta produzione saggistica su Barry
Lyndon sembra,
nel quasi mezzo secolo dall’uscita in sala, aver preferito
soffermarsi più spesso sugli aspetti estetici della pellicola, in
termini teoretici e concettuali o di sensazioni e riflessioni
suggerite, piuttosto che all’analisi di ciò che ne costituisce la
magnificenza,
nel
rigore d’un magistero tecnico totalmente asservito al
raggiungimento d’una perfetta narrazione per immagini. Eppure lo
stesso Kubrick, nelle poche interviste concesse, si è espresso molto
chiaramente su ciò che si dovesse intendere per film
perfetto
e sulle necessarie modalità per concepirlo (ove il
concetto etimologico del termine fa pendant
con una visione a raggiera), rivendicando
anzi la finalità del proprio
conseguimento quale unica bussola cui attenersi, il solo scopo da
perseguire senza compromessi. Lui per primo a convenire quanto
dispendioso sia in termini di tempi, sforzi, fatica, in un procedere
di sequenze ripetute in infinite serie di ciak, con la necessità
permanente di mantenere il totale, simultaneo controllo di decine di
fattori.
Analizzare
tutto questo è dunque ostico, e a forte rischio di esiti difettosi o
incompleti. Congratulazioni perciò a Davide Magnisi, il cui saggio –
pubblicato da Gremese per
la collana
I migliori film della nostra vita
– affronta
Barry
Lyndon
nell’unica maniera lecita a un’opera perfetta, conducendola cioè
in maniera altrettanto perfetta. Benché seducente sia
il celebre
aforisma pasoliniano, secondo cui sarebbe svilente concretizzare un
sogno quando già in sogno appare perfetto, la curiosità cinefila
muove alla ricerca, e offre occasione per realizzarne una poche volte
tentata – ad eccezione d’un volume analitico di Philippe Pilard,
edito da Lindau diciott’anni prima – spaziando su tutti i
registri in gioco. Documentatissimo
e preciso, come lo stesso Kubrick probabilmente avrebbe preteso, il
testo percorre lo sviluppo della confezione ponendo in demiurgica
relazione ciascuna componente scenica e narrativa, spiegando e
raccontando. Il suo procedere sintagmatico restituisce la storia
narrata rivelandone il discorso
attraverso la sua costruzione ed esposizione visiva, grazie a
puntuali annotazioni, appropriate intuizioni, felici suggerimenti
(neppure l’embrione dell’esperienza, l’incompiuto progetto del
kolossal
su Napoleone, viene dimenticato).
Di
fatto,
il decimo lungometraggio di Kubrick non abbraccia solo la dimensione
della Storia, nella misura in cui sarebbe scorretto etichettarlo
sbrigativamente quale prodotto storico,
o in costume: “Barry
Lyndon
è la nostra storia”, introduce Magnisi, ché il romanzo di
formazione d’un giovane irlandese in conflitto con la società del
proprio
tempo e con regole d’un gioco prevaricante, altro non è che un
grandioso acquario critico-sociale, in forma di parabola esistenziale
e allegorica, sensibile e cosciente. La superficie immaginifica dei
fotogrammi, con la fascinosa funzione di trascendere il Settecento
rappresentato individuandovi precisi richiami iconografici, non si
ferma a questo, essendo qualcosa di ben più complicato e meticoloso,
destinato a un’ulteriore trasfigurazione. Una sorta di
imitation of life
indotta dalla maestosa finzione, dalla squisita bellezza della sua
fattura (“I film storici”, per usare le parole del maestro,
“hanno in comune con quelli di fantascienza il tentativo di
ricreare qualcosa che non esiste”).
Dire
di più è impossibile, data la ricchezza degli argomenti e la loro
restituzione in un testo che ne rende conto in
toto,
senza ombra di pedanterie. Un testo fatto per essere letto e non
unicamente compulsato: uno di quei saggi che dilatano il piacere del
cinema al di là della visione, e oltre, nell’ospitale e amorosa
attenzione d’ogni appassionato. Sino a lasciar trapelare il
significato, tutt’altro che concavo, dietro la nota epigrafe
conclusiva riportata sulla copertina del libro. Non tutta la
saggistica e non tutte le monografie offrono al lettore questo dono:
il saggio di Magnisi lo dispensa ad ogni pagina.
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