L’isola di Mulligan
L’isola
di Mulligan
Ancora
una volta risulta impossibile introdurre un cineasta americano senza
citare il compianto Franco La Polla, che definisce Robert Mulligan un
mestierante tra i più seri e onesti del ventennio Sessanta-Settanta.
“Pur senza grandi pretese”, affermava, e tuttavia rispettoso
della lezione linguistica del genere classico quanto nell’impiego
di spunti e assunti, ora introspettivi ora sofferti, delicato persino
all’interno di apparati sorprendentemente violenti. Si
preferirebbe, argomentando del regista newyorchese, non cadere nella
disamina del periodo, che suonando oggi probabilmente
contestualizzata, stigmatizza cineasti di minor rango quali artigiani
alla ricerca del facile portafoglio. Se tale considerazione, a suo
tempo, nutriva forse qualche ragione nel non riconoscere firme di
personalità dietro produzioni prettamente commerciali, non si può
ribadirlo per Mulligan, per il quale realmente si dovrebbe parlare
d’uno strano
incontro,
o meglio: strano
mondo,
parafrasando due titoli d’una filmografia non copiosa, cui la
fresca uscita d’una monografia corale, edita da Falsopiano,
sopperisce a un’ingiusta lacuna.
A
indagare tra le componenti di questo percorso a spirale, si scopre
l’impronta televisiva del futuro tocco delicato: pronta a mostrarsi
anelante in ciascuna sfumatura, la dimensione intimista è qualcosa
di riconducibile a un mini-format, concentrato
in prevalenza sul risvolto psicologico prima che sull’impianto
narrativo. È così che tra i numerosi lavori collezionati sotto
l’egida del network CBS,
l’assunto giudiziario, normalmente consono a un tal genere di
confezione, assurge a sfondo di un divario paterno-filiale tra due
curiali in The
Defender:
dramma in due parti della serie Studio
One co-sceneggiato
da Reginald Rose, specialista in teatro televisivo e autore de La
parola ai giurati.
In aggiunta al fatto che la gavetta di Mulligan lo vede impiegato
nella gloriosa redazione del “New York Times”, e in numerosi
titoli sfollano giovani talenti destinati al successo (l’accusato
di The
Defender,
per dire, è Steve McQueen); l’opera dell’autore raduna
inquietudini e nevrosi d’una generazione implosiva, adolescenziale
o meno, chiamata al “confronto con il mistero dell’altro” e la
cui spontaneità è indotta allo scontro con una sfera
incomprensibile destinata nel bene quanto nel male a un frenetico
svezzamento colmo d’intoppi. Lungo una scia di generi, dalla
commedia al mélo,
tesa a resistere al mutamento produttivo dei lustri a seguire,
Mulligan non cessa la disamina nella restituzione di
ritratti-riverbero dei fasti e nefasti del rispettivo tempo, parente
nemmeno troppo stretta della gioventù (bruciata) degli Anni
Cinquanta, impreziosita dalla collaborazione
di novelist e screenplayers quali
Garson Kanin, Gavin Lambert, Tom Tryon, Herman Raucher, Eric Roth ed
altri.
Ma
è ciò che sta in mezzo, il periodo post-bellico, lo spartiacque
forse più rilevante per un’analisi storico-culturale in cui il
valore della cinematografia a stelle e strisce si fonda, di
prevalenza, sulla caratterizzazione di volti-simbolo e sulla loro
recitazione, al fianco di star collaudate. Non è lontana la distanza
d’un nevrotico Anthony Perkins, in balia delle paterne ambizioni su
di lui, da quella d’un prestante Richard Gere alle prese con
analoghe vicissitudini familiari, entrambi alla ricerca di un
identificativo riscatto sociale. Ragazzi di provincia o egualmente ai
margini, come la Natalie Wood introdotta di peso nell’ambiente di
Hollywood, quando non indecisa dinanzi alla decisione di abortire; a
rifletterci, frequenti risultano le opportunità per radiografare la
condizione femminile, il relativo punto di vista, la graduale
crescita e il rifiuto d’un ruolo imposto. Nemmeno il minus
habens Robert
Duvall – che iniquamente relegato ai limiti, si rivela demiurgico
angelo salvifico nell’epilogo del pluripremiato Il
buio oltre la siepe – costituisce
un’eccezione alla categoria dei dropout etichettati
come tali. Eppure, salvo il differente percorso introduttivo, il nome
di Mulligan può annoverarsi insieme a quelli di colleghi più o meno
coetanei, gran parte d’estrazione televisiva, e tra essi
promettenti leve del Nuovo Cinema Americano (Altman e Pollack, ma
pure Lumet e Rafelson), e dall’altro – è il caso dei più
anziani Richard Brooks o Martin Ritt – reputati solidi
professionisti. Nel primo caso poi, si segnala il proficuo sodalizio
con Alan J. Pakula in qualità di produttore esecutivo, mentre nel
secondo, talvolta, la produzione di Mulligan mostra persino qualche
analogia con Kazan, non meno insensibile verso trasposizioni
da pièce e
romanzi da cui attingere spunti sociali, di matrice progressista,
sulle angosce d’epoca.
Curioso
infine che il destino di Mulligan, all’interno
d’un milieu filmografico
rinvigorito, sia lo stesso che obbliga vecchi leoni a confrontarcisi,
lasciando un ulteriore solco a mo’ di esplicativa lezione
testamentaria: salvo che il Nostro opta per la sfera della
sperimentazione, senza associarsi per forza a discorsi di denuncia o
a lastre auto-riflessive. Su per la discesa d’un cinema ritenuto
surclassato, in barba a considerazioni spicciative o a ineludibili
incerti di gestazione, s’annoverano un western poco indulgente alla
prevaricazione “bianca”, ancorché ambiguo verso i nativi
americani; un’educazione sentimentale venata di turbamenti, al
contempo nostalgica rievocazione, sullo sfondo del secondo conflitto;
un’orrifica fiaba sovrannaturale. E, prima che la strada chiamata
domani si ribattezzi New Hollywood, un apologo noir esistenzialista
di sapore letterario, interamente in sottrazione: la figura del
“mediatore” della malavita, votato in partenza alla sconfitta,
quasi suona alter
ego d’un
regista costretto a un passaggio di consegne privo di compromessi,
lontano da mentalità e meccanismi sin lì imposti, lungo una
struttura compassata e volutamente dilatata. A tali lavori ne
seguiranno altri, più sporadici (tra cui una “doppietta”),
frutto d’una politique che
non si curerà granché del cambiamento, fedele ai propri stilemi e,
va da sé, condannato ai margini. Del resto, a differenza di cineasti
riscoperti e analizzati con meritoria attenzione dalla critica
d’oltralpe, qualche tempo prima Mulligan gode di un’affine
attenzione riservatagli dai francesi, prima d’incontrare l’oblio.
A
cura di Mario Molinari e Fabio Zanello, Il
cinema di Robert Mulligan è
ora l’occasione di riparare alla trascuratezza seguendo il percorso
artistico dell’autore, corroborato nelle pagine del volume da saggi
assortiti che recano le firme, oltreché dei citati
curatori, di Aurora Auteri, Umberto Berlenghini, Claudia
Bertolé, Alberto Castellano, Massimo Causo, Giulio D’Amicone,
Paolo Antonio D’Andrea, Mariolina Diana, Francesco Grieco, Anton
Giulio Mancino, Orazio Paggi, Antonio Pettierre, Michele Raga,
inclusa un’appendice introduttiva di Roberto Lasagna. Chi
scrive, pure, vi collabora. Senza anticipare alcunché per non
togliere il piacere della sorpresa tra curiosità e retroscena,
aneddoti e segreti: contentiamoci di segnalare che, per un
celebre cult,
Mulligan è la scelta numero uno, prima che il progetto finisca nelle
mani di Ridley Scott (che ne farà un’opera intergenerazionale).
Resta come lo sforzo speso – nel coronamento del primo volume edito
in Italia, e probabilmente tra i primi della pubblicistica mondiale,
sul film
maker – sia
il maggior pregio nei confronti d’una cinematografia non
necessariamente di transizione, indicativa per afferrare umori e
introversioni che, nel menzionato decennio Settanta, si sarebbero
elevate a bandiera (e voce patronale) d’un pensiero comune. Quanto
a dire che la produzione sbrigativamente reputata come “artigianale”,
una volta tanto, ottiene la sua giustizia. E certo non occorre esser
Atticus Finch per rimediare alla carenza, coltivando la siepe del
buon giudizio oltre il buio della corrività.
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